COVID-19: una catastrofe sociale?

 

di Liliana Dell’Osso, Barbara Carpita, Virginia Pedrinelli, Annalisa Cordone, Dario Muti
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa 


Indice dei contenuti

“Per i non esperti”

Bibliografia


Introduzione

La Storia ricorda diverse pandemie: la prima fra tutte a tornare alla mente è la cosiddetta influenza “spagnola” che flagellò il pianeta esattamente un secolo fa, mietendo un numero spaventosamente elevato di vittime. L’attuale pandemia da COVID-19, tuttavia, differisce in modo netto dalle precedenti: la globalizzazione ha, infatti, permesso all’infezione da SARS-CoV-2 di propagarsi a una velocità senza precedenti, tanto da apparirne come la sublimazione e da esser definita “la pandemia del secolo”1.
L’economia globalizzata, inoltre, ha fatto sì che l’attuale emergenza si inserisca in uno scenario molto più complesso e articolato, minato da preesistenti tensioni sociali e problematiche economiche: si innesta, infatti, su un substrato in cui alla crisi sanitaria si affiancano annose questioni sociali irrisolte (disoccupazione, discriminazione, disuguaglianze) e storiche difficoltà nel realizzare una società autenticamente multietnica, maldestramente nascoste sotto un intollerabile e impacciante senso del “politicamente corretto”.
L’attuale pandemia è, infine, il primo evento infettivo su scala mondiale che la ricerca scientifica e i sistemi sanitari del mondo sono chiamati a gestire al fianco del potere politico, in un complesso intreccio di progresso e strumentalizzazione, che si svolge sotto un’estesa, e talora incontrollata, esposizione mediatica.

COVID-19: crisi sanitaria, crisi economica, crisi sociale ed emergenza psichiatrica

La diffusione della pandemia di COVID-19 ha innescato una “crisi” sanitaria, la cui conseguenza sociale più immediata e tangibile è stato il lockdown. Le misure finalizzate al contenimento dell’infezione e alla tutela della salute hanno richiesto importanti limitazioni della libertà personale, a loro volta inevitabilmente gravide di conseguenze economiche e fonti di contrasti sociali. Inoltre, studi preliminari suggeriscono che il forzato isolamento potrebbe fungere da fattore precipitante verso disturbi mentali2.
È la stessa semantica del termine crisi a testimoniare la prossimità delle due dimensioni, sociale e individuale, e l’elevato rischio, durante una crisi economica e sociale di una “crisi” della salute dell’individuo. Sembrerebbe riproporsi l’analogia fra stato e corpo umano tracciata da Menenio Agrippa durante un celebre discorso, in cui i vari soggetti della res publica romana venivano paragonati a membra ed organi per sottolinearne le relazioni3.
Dopo anni di “crisi” di natura generalmente economica o politica, in cui non eravamo direttamente coinvolti, ci siamo alla fine ritrovati un ospite inquietante nelle nostre case: lo spettro del contagio. Per la maggior parte della popolazione occidentale, infatti, le dinamiche che governano l’economia e la scacchiera geopolitica sono aliene dall’esperienza diretta: seppur le conseguenze siano tangibilmente apprezzabili (per esempio quelle delle variazioni del prezzo del petrolio), non siamo attori nello svolgimento degli eventi stessi. Sono ancora vive le immagini del 15 settembre 2008: la crisi economica globale aveva improvvisamente travolto le esistenze degli impiegati della Lehman Brothers, immortalati mentre abbandonavano gli uffici di quella che era stata la quarta maggiore banca statunitense, con scatoloni di effetti personali in mano, simili a “reduci” di guerra in ritirata, dei quali talora hanno condiviso il destino psicopatologico. Numerosi studi hanno indagato i rapporti tra crisi economica e salute mentale. I risultati hanno confermato ciò che quotidianamente giunge dai media: le difficoltà economiche si riverberano sulla storia clinica individuale, esponendo i soggetti a situazioni di precarietà, di disperazione, fino ai gesti estremi che talora occupano la cronaca. Il documentato incremento del rischio di suicidio, osservato nel contesto di grandi crisi economiche e di precedenti pandemie dello scorso e dell’attuale millennio, è causa di allarme generale, in special modo per il personale sanitario chiamato a fronteggiare in prima linea la pandemia4.

Sindemia

Durante l’emergenza COVID-19, il concetto di “tramonto dell’Occidente”, vale a dire una condizione di fragilità e stagnazione che prelude alla decadenza5, sembra evocato dal riscontro di un numero massivo di contagi proprio nel paese che nell’ultimo secolo si è proposto come la punta di diamante dell’Occidente. Negli Stati Uniti il virus si diffonde incontrastato e miete moltissime vittime, la situazione economica è disastrosa, e per le strade esplodono rivolte e incendi.
Tuttavia, l’inadeguata gestione della pandemia non può certo essere identificata come causa diretta di un ipotetico declino della civiltà americana e occidentale. Al contrario, essa ha contribuito a rendere più manifeste tensioni già presenti e pronte a deflagrare. Significativa in tal senso è la drammatica vicenda di George Floyd. Afroamericano, arrestato per un crimine triviale (forse una banconota contraffatta), viene soffocato durante l’arresto, nonostante non opponesse resistenza. Un video dell’accaduto, girato da alcuni testimoni, diventa immediatamente virale e innesca l’esplosione di moti popolari, rivolte, saccheggi che trovano risposta – e amplificazione – in una dura repressione. Non è casuale che tutto ciò avvenga nel contesto di una crisi economica di lunga durata, a cui si vanno sommando i devastanti effetti della pandemia di COVID-19. Scoppia la scintilla generata dalla questione razziale, nodo irrisolto in quest’epoca di grandi migrazioni, trasformandosi in un’escalation di violenza in un Paese in cui, anche a causa della liberalizzazione delle armi da fuoco, il rischio di esporsi a un evento traumatico è già tra i più elevati nel panorama occidentale: ciò si riflette in una elevata prevalenza di disturbi stress-correlati, fino a quadri conclamati di disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Il concomitare di aspetti sociali e psichici sembra configurare l’esistenza di due pandemie embricate (la “malattia” psico-sociale associata a quella infettiva), di una sindemia, sul cui potenziale ruolo nel paventato “tramonto dell’Occidente” è lecito e doveroso interrogarsi.

La rivalsa della scienza?

È stata necessaria una pandemia perché la cultura e la politica tornassero a rivolgersi alla scienza, riscoprendone un fascino (quello della disponibilità di nozioni e previsioni) che sembrava essersi in larga parte spento con il dilagare di un anti-intellettualismo generalizzato. E così, mentre i politici affermano di seguire le indicazioni di un comitato di esperti (approccio facilmente tacciabile di strumentalizzazione) e le norme igieniche divengono norme di diritto civile, il dibattito scientifico si svolge davanti ad una popolazione impreparata ad assistervi: le notizie vengono diffuse tramite una tumultuosa e spesso contradditoria strategia comunicativa, spesso esitante in misinformazione.
All’eclatante ritorno sulla scena della scienza nella forma dell’unico Palladio capace di avversare una sicura catastrofe, si sono tuttavia contrapposti un’ondata riverberante di sfiducia e il ricorso a temi e forme espressive che si credevano tramontati. Si assiste così, nel proliferare di fake news su morbi misteriosi, credenze su esalazioni e sul potere terapeutico dell’aglio, allo sconcertante spettacolo di un’umanità che, non ancora padrona di una cultura complessa e sfaccettata, non fa che ripetere se stessa, o meglio gli aspetti deteriori della propria natura. Si è dunque tornati alla ricerca dell’untore, in un dilagare di sospetti e allarmismo rivolti dapprima ai cittadini cinesi e successivamente ai vicini di casa, e alla proposta della cura casalinga – tra cui spicca il pubblico suggerimento all’iniezione sottocutanea di disinfettanti fornito da Trump – fino alla dichiarazione di una “guerra” (santa?) contro un virus.
I mezzi di informazione e la politica stessa hanno, infatti, adottato una retorica bellica: lo scenario della prima fase di emergenza ha assunto, nell’oratoria, le fattezze di una trincea, o ancor meglio di un assedio, da spezzare con disciplina e risolutezza. In tale cornice si inserisce la stessa indulgenza plenaria concessa da Papa Francesco ai fedeli: Deus Vult costituisce un’espressione preoccupante, seppur comprensibile. Essa sembra, infatti, suggerire che presso una parte della popolazione l’epidemia si abbatta nella forma dell’atto magico-divino: terribile, potentissimo e capriccioso. Laddove la conoscenza scientifica mira a individuare procedure utili e terapie efficaci, la rappresentazione di una “guerra contro il virus” in atto, oltre a essere un’esternazione proveniente da qualche strano tecno-medioevo, ha accresciuto a livello individuale e collettivo il senso di minaccia e sopraffazione6. In questa cornice, le norme di distanziamento sociale per molti si sono prestate ad essere vissute con alti contenuti soggettivi di angoscia, stress e, soprattutto, con una connotazione di impotenza e inutilità. Condizione, questa, che rischia di ridurre la compliance alle misure sanitarie adottate, aggravando al contempo le conseguenze psicologiche della pandemia stessa.

Traiettorie di malattia e prospettive di salute

Esiste un margine di adattamento, spesso sorprendentemente ampio, dell’individuo all’ambiente. Ogni individuo, nel suo percorso psicobiografico, traccia una traiettoria singolare, che si mantiene in genere sotto la soglia clinica, in un equilibrio dinamico influenzato dai rapporti tra i fattori di rischio e gli elementi di resilienza. Ultimamente in Psichiatria si parla sempre di più di “traiettorie di malattia”7: una direzionalità che, se invertita e portata sul piano positivo, appare come un “percorso di salute”, di guarigione in cui l’uso dei farmaci, personalizzato e tempestivo, in associazione o meno alla psicoterapia, conduce al recupero di quei fattori protettivi che, con una grande variabilità individuale, sono presenti in ciascuno di noi. Specularmente, in ogni crisi può manifestarsi una duplicità di aspetti: da un lato quello negativo della perdita (o della minaccia di perdita) dello status quo, dall’altro quello positivo del rafforzamento e del cambiamento.

L’ipocrita scorciatoia del medico-eroe

Il lessico della battaglia, che ha ben presto permeato la comunicazione di massa a mezzo social, ha trovato nell’impropria retorica sul ruolo del medico o del personale sanitario e di soccorso in generale, una prevedibile (e strumentale) espressione. Il medico, il cui operato era stato, nelle ultime due decadi, oggetto di sempre più frequenti contenziosi legali, è improvvisamente salito alla ribalta nelle scomode vesti di “eroe in trincea”. Tale retorica non va nel segno di una riqualificazione del ruolo professionale e sociale del medico, bensì rappresenta un alibi per giustificare l’inadeguatezza di mezzi con cui gli operatori sanitari, in particolare durante la fase 1, sono stati costretti a svolgere quotidianamente l’esercizio della professione, in una situazione di emergenza di fronte alla quale si sono trovati assolutamente impreparati, a prezzo della propria e altrui sicurezza. Tale scelta lessicale sottintende inoltre che l’esercizio della professione medica implichi una volontaria accettazione del rischio su base “vocazionale”, deresponsabilizzando così coloro tenuti al controllo di tale rischio. Il costo umano degli operatori sanitari infettati e deceduti a causa della COVID-19 nel corso degli ultimi mesi testimonia direttamente la scelleratezza di tale approccio. Quali conseguenze attendono i “reduci”? Da un lato i medici sono ad alto rischio di disturbi psichici derivanti dall’attuale emergenza, strettamente correlate con l’esposizione a eventi traumatici estremi8. Dall’altro lato, smesse le vesti di eroe, gli stessi torneranno (e in parte il processo si è già avviato) facile oggetto su cui riversare rabbia e rivendicazioni risarcitorie con probabile incremento dei procedimenti legali a loro carico, incluse persino aggressioni fisiche.

Appuntamento con il futuro

Trascorso il primo picco di criticità, siamo stati chiamati a riprendere la nostra vita, senza lasciare indietro le necessità lavorative, sociali, persino ricreative. Lo spettro della risposta comportamentale osservabile nella popolazione vede alcuni accettare, pur nel rispetto delle direttive, una certa quota di rischio pur di tutelare tali necessità. Di segno differente l’approccio di coloro che hanno deciso di mantenere alta la guardia, rinunciando a tutte le attività non necessarie all’esterno (e, in alcuni casi, anche a quelle necessarie), e continuando il più possibile a osservare l’isolamento sociale. In antitesi a questi ultimi, una nutrita schiera di negazionisti rifiuta di attenersi alle misure restrittive, ritenendole immotivate e coercitive, e si espone massivamente al rischio di contagio.
Possiamo ipotizzare che il primo atteggiamento, ovvero l’accettazione del rischio, sarà più rappresentato tra i soggetti con tratti temperamentali ipertimici, con elevati livelli di energia, propensione all’ottimismo e al rischio ed elevata fiducia nelle proprie capacità. I soggetti con più pronunciati tratti ansiosi assumeranno, al contrario, comportamenti volti primariamente alla riduzione del pericolo o, talvolta, atteggiamenti di evitamento dello stesso. Da psichiatri ci chiediamo quale di questi stili comportamentali, di coping, nei confronti “dell’evento pandemia” sia adattativo e quale disadattativo. Fatti salvi gli estremi di entrambi gli atteggiamenti, ovviamente eccessivi se non francamente patologici, si tratta di una questione difficile da definire, perché la risposta è data dal risultato ottenuto nello specifico contesto ambientale.
Ovviamente, se dovesse presentarsi (o essere già silenziosamente in atto), una nuova ondata della malattia, tutti coloro che oggi hanno deciso di esporsi ne subirebbero le conseguenze negative sulla loro pelle, mentre i più prudenti sarebbero risparmiati. D’altra parte, se il virus dovesse risultare maggiormente contenibile, come sostenuto da più parti, i più ansiosi si troverebbero ad affrontare importanti, e non necessari, danni economici, relazionali, psichici, con le inevitabili ricadute sulla qualità della vita. C’è inoltre un aspetto, inquietante, da non sottovalutare. La perdita di prospettive future, il congelamento in un presente senza speranza, la visione negativa del mondo e il sentimento di cambiamento indelebile e di irrecuperabilità di ciò che si era prima sono sintomi tipici della reazione disadattativa all’esposizione ad un evento traumatico estremo, quale la pandemia in atto.
Potrà dunque accadere che, una volta che l’epidemia sarà finita e il mondo avrà ripreso il suo corso, molte persone restino congelate nella dimensione di mancanza di speranza che le ha travolte in questo periodo. Il rischio è che per loro l’epidemia non finisca effettivamente mai e che il mancato ricorso all’osservazione specialistica (anche a causa dello stigma che ancor oggi socialmente si associa al disturbo mentale) si estenda fino a configurare una nuova epidemia silenziosa: quella psico-sociale. I segni ci sono già, sta a noi intervenire.

Conclusioni

L’attuale è solo l’ultima epidemia a diffusione respiratoria con cui l’umanità si è confrontata nel tempo, e la Storia insegna che ogni volta al termine i contatti umani sono tornati allo status quo. Il timore diffuso di un difficile ritorno alla “normalità” non appare giustificato. L’essere umano dimentica e la coscienza storica si perde: sia nel bene, con il recupero della spinta alla prossimità e alla condivisione, che nel male, nei termini di ritorno alla mancanza di rispetto di norme igieniche personali e ambientali che sarebbe auspicabile mantenere a prescindere da epidemie in atto. Si tratta dello stesso fenomeno che, fino a qualche mese fa, faceva apparire la possibilità di un rischio per la vita associato a malattie infettive così remoto che ha potuto instaurarsi una corrente di pensiero quale quella dell’antivaccinismo.
È dunque auspicabile che l’attuale contingenza possa dare avvio ad un reale processo di rivalutazione e valorizzazione della ricerca scientifica e ad un ripensamento delle politiche sanitarie, sulla scorta dell’evidenza che la comparsa di un avvenimento morboso su larga scala non è confinata alla storia della Medicina, ma rappresenta una prospettiva concreta dell’epoca moderna.

“Per i non esperti”

Crisi

Crisi deriva dal greco κρίνω, io separo, significa distinzione, discontinuità, cambio di qualità percettibile. Di per sé, il termine è neutro. Complice forse la medicalizzazione della cultura occidentale, la neutra “crisi” della lingua greca ha assunto un significato oscuro e minaccioso: ha preso a indicare il momento di passaggio da uno stato ordinato a uno alterato. Come prototipo della crisi potremmo prendere la crisi febbrile, o quella epilettica, momento di discontinuità fra uno stato di buona salute e uno di malattia, caratterizzato dalla perdita di funzione e di benessere.

Coping

Il termine coping deriva dall’inglese to cope, fronteggiare, venne introdotto nel 1966 da Lazarus9 in riferimento alle strategie cognitive e comportamentali che l’individuo mette in atto per gestire e fronteggiare le richieste esterne in relazione alle risorse possedute. Si tratta di strategie volte a mantenere un equilibrio dinamico tra essere umano e ambiente che possono risultare, o meno, adattative. Tra le numerose strategie di coping descritte, riportiamo a titolo di esempio la distinzione proposta inizialmente dallo stesso Lazarus: problem-focused (centrata sul problema) ed una emotion-focused (centrata sulle emozioni). La prima di tali strategie mira a rispondere alle richieste ambientali tramite azioni strumentali. Il coping centrato sulle emozioni si basa, invece, su una strategia di rimodellamento cognitivo che porta ad attribuire un significato diverso allo stimolo esterno.

Sindemia

Il termine sindemia deriva dal greco συν, insieme, e δήμος, popolo, con sottinteso νόσημα, malattia; descrive l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o di gruppi di malattie in una popolazione, con conseguenti interazioni biologiche che aggravano la prognosi delle patologie singolarmente considerate. La dizione Global Syndemic è stata impiegata in un articolo seminale  pubblicato sulla rivista Lancet10 per descrivere il concomitare di tre pandemie: l’obesità, la malnutrizione e il cambiamento climatico. Si tratta di condizioni sinergiche, che co-occorrono in un determinato periodo storico e che condividono e interagiscono in modo complesso con aspetti di natura socio-economica.

Resilienza

Il termine resilienza deriva dal latino “resilire”, rimbalzare, saltare indietro. In fisica e ingegneria il termine indica la capacità di un materiale di riacquistare la propria struttura o forma originaria dopo essere stato sottoposto a schiacciamento o deformazione. Per analogia, in psicologia, il termine indica la capacità individuale di fronteggiare traumi e difficoltà.

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