L’esercito e le armi contro il SARS-CoV-2

La reazione del nostro sistema immunitario
di Barbara Illi
Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBPM-CNR), c/o Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”, Sapienza Università di Roma


Indice dei contenuti

Ultimo aggiornamento: 23/03/2021

“Per i non esperti”

Bibliografia


 

Introduzione

La necessità di contenere la pandemia di COVID-19, attraverso lo sviluppo di terapie e vaccini, e di capire come il nostro sistema immunitario risponda all’infezione di SARS-CoV-2 (di seguito indicato con CoV-2) è estremamente urgente. Un aspetto importante, riguardo all’ultimo punto, è che gli studi sull’immunità indotta da CoV-2 sono stati eseguiti tutti su pazienti ospedalizzati, spesso in condizioni critiche. Di rilievo è l’osservazione che i casi più gravi di COVID-19 presentano una risposta immune eccessiva, caratterizzata da linfopenia, eosinopenia, attivazione di cellule secernenti citochine e conseguente tempesta citochinica, risultante in una sindrome da distress respiratorio acuto (ADSR, Acute Distress Respiratory Syndrome), danno tissutale, coagulazione intravasale disseminata e collasso multiorgano. A ogni modo, ora è chiaro che il nostro sistema immunitario impiega tutto il suo esercito di cellule e armi per combattere il CoV-2 e sconfiggere la COVID-191.

I mediatori dell’infiammazione: le proteine della fase acuta e la tempesta di citochine

Le proteine della fase acuta, che insorgono all’inizio del processo infiammatorio, dovuto ad agenti infettivi o meno, possono essere marcatori diagnostici e prognostici di malattia2. Queste includono la proteina C reattiva (PCR), l’alanina transaminasi (ALT), la lattato deidrogenasi (LDH, Lactate DeHydorgenase), la creatina chinasi (CK, Creatin Kinase).
Nei pazienti con COVID-19, questi indicatori molecolari sono stati costantemente riportati alla diagnosi e correlati con la gravità della malattia insieme ad altri marcatori, tra cui troponina I cardiaca, procalcitonina, aumento del tempo della protrombina, ferritina, D-dimero (un prodotto di degradazione della fibrina, digerita dall’enzima plasmina), fibrinogeno, aspartato transaminasi (AST) e aumento del tempo di sedimentazione degli eritrociti. Inoltre, i pazienti con tali indicatori e con prognosi sfavorevole sono in media più anziani dei pazienti meno gravi e affetti da più patologie (malattie cardiovascolari, diabete, ipertensione, cancro ecc.)3.

I pazienti con COVID-19 sono affetti in maniera ricorrente da quella che è chiamata tempesta di citochine, con manifestazioni cliniche sovrapponibili a quelle della linfoistiocitosi emofagocitica secondaria (sHL, secondary Haemophagocytic Lymphohisiocytosis), una sindrome iperinfiammatoria, di solito scatenata da infezioni virali, caratterizzata da febbre persistente, iperferritinemia, citopenia5 e ADRS nel 50% dei casi6. Un tipico profilo di citochine osservato nei pazienti con COVID-19 mostra alti livelli di interleuchina 2 (IL2), IL6, IL7, fattore stimolante i granulociti (GCS-F, Granulocyte Colony Stimulating Factor), proteina 10 inducibile da IFNγ (IP10, IFNγ inducible Protein 10), proteina chemoattraente 1 dei monociti (MCP1, Monocyte Chemoattractant Protein 1), proteina infiammatoria 1-α dei macrofagi (MIP1-α, Macrophage Inflammatory Protein 1-alpha,) e il fattore α di necrosi tumorale7,8 (TNFα, Tumor Necrosis Factor alpha). Una recente analisi trascrittomica eseguita su fluido ottenuto dal lavaggio broncoalveolare (BALF, Bronchoalveolar Lavage Fluid) e su cellule mononucleate da sangue periferico (PBMC, Peripheral Blood Mononuclear Cells) in un certo numero di campioni da pazienti con COVID-19, ha rivelato che, nel BALF, sono attivate vie molecolari relative alla replicazione virale, mentre nei PBMC, i trascritti più rappresentati sono relativi all’attivazione del sistema immunitario9.

Gli interferoni: vantaggiosi o dannosi?

Gli interferoni sono classificati in 3 sottotipi, alfa (α), beta (β) e gamma (γ). Gli interferoni α e ß appartengono alla sottoclasse tipo 1, mentre l’interferone γ fa parte della sottoclasse tipo 2. Di recente, è stato identificata una nuova sottoclasse di interferoni, indicata come tipo 3, chiamata interferone lamba (λ) che ricorda gli interferoni di tipo 1. È stato dimostrato che CoV-2 induce debolmente gli interferoni10.

Date le loro proprietà antivirali, sono state esplorate terapie e profilassi basate sugli interferoni. In particolare, gli interferoni α e β sono stati usati per trattare le epatiti C e B, e i dati preliminari mostrano che potrebbero essere efficaci nel prevenire l’infezione da CoV-211. Tuttavia, gli interferoni di tipo 1 hanno effetti collaterali considerevoli, a causa dell’espressione ubiquitaria dei loro recettori. Al contrario, l’interferone λ è espresso da cellule epiteliali e immunitarie e gli studi svolti finora hanno dimostrato che è in grado di prevenire la disseminazione virale dall’epitelio nasale al tratto respiratorio superiore12. Inoltre, l’interferone λ è una molecola protettiva più che infiammatoria, e stimola sia l’immunità adattativa sia la produzione di anticorpi, essenziali per l’immunità a lungo termine. Perciò, potrebbe avere effetti benefici sui pazienti con COVID-19. L’uso dell’ interferone λ in clinica è trattato in La lunga strada verso le terapie. Inoltre, è stato provato che gli interferoni di tipo 1 e 2 possono indurre l’espressione di ACE2 in colture di cellule umane del tratto respiratorio superiore e in cellule primarie dell’epitelio basale di donatori umani13. Questi risultati suggeriscono che il CoV-2 potrebbe usare gli interferoni per aumentare la sua capacità infettiva. Comunque, le cellule stimolate con l’interferone λ aumentano l’espressione della GBP5 (Guanylate Binding Protein 5), una proteina che inibisce l’attività della furina e la propagazione virale dalle cellule infette14. Se gli interferoni siano vantaggiosi o dannosi per i pazienti con COVID-19 è un argomento ancora in discussione. E potrebbe dipendere da fattori come il tempo di infezione, l’età, il sesso e la co-morbidità.

Il SARS-CoV-2 e il sistema umano HLA

Alleli HLA differenti conferiscono una suscettibilità diversa al CoV-2 e determinano un esito differente della malattia, come accade anche per il SARS-CoV15. Un analisi in silico (ossia basata su modelli matematici di predizione, non su prove sperimentali) della capacità di legame di 145 tipi di HLA per peptidi virali dell’intero proteoma di CoV-2, ha rivelato che gli alleli HLA-A hanno la migliore capacità di presentare l’antigene, mentre gli alleli HLA-C la peggiore.
La comparazione con i proteomi di altri CoV ha mostrato che i migliori alleli che danno luogo a proteine presentanti peptidi conservati, e potenzialmente in grado di conferire immunità protettiva crociata, sono HLA-A*02:02, HLA-B*15:03 e HLA-C*12:03. Al contrario, gli alleli HLA-A*25:01, HLA-C*01:02 and HLA-B*46:01 sono i peggiori, e l’ultimo è anche associato a un decorso di malattia più grave nel caso di infezione da SARS-CoV16. Questo studio, tuttavia, ha il limite di essere basato su modelli predittivi; per cui, a meno che non venga validato, non ha valore clinico.

Riguardo le proteine HLA di classe II, l’HLA-DR merita una menzione speciale. L’HLA-DR è espressa sulla superficie dei monociti, come cellule dendiritiche, linfociti B e macrofagi. Quando presenta i peptidi derivati da patogeni ai linfociti T CD4+ e CD8+ si scatena una risposta immunitaria specifica. Inoltre, le molecole HLA-DR attivano i linfociti T helper, che svolgono un ruolo centrale nella risposta immunitaria contro gli agenti virali. Le molecole HLA-DR sono meno espresse sulla superficie dei monociti CD14+ dopo un’infezione da CoV-2, come durante la sepsi. Quando il numero di monociti HLA-DR+ cala, la polmonite evolve in collasso respiratorio grave, che richiede ventilazione meccanica17. Questo fenomeno potrebbe dipendere, almeno in parte, dall’elevata quantità di IL6 riscontrata in pazienti con COVID-19 gravemente ammalati, poiché l’IL6 fa diminuire l’espressione di HLA-DR18.
La famiglia delle IL6 esercita molte funzioni, incluse l’attivazione dei linfociti B, ma sono anche coinvolte nel controllo metabolico e neurotrofico. Nei pazienti con COVID-19, l’IL6 è prodotta principalmente da monociti CD14+ e linfociti T CD4+. Esiste una correlazione negativa tra i livelli di IL6 e il numero di molecole HLA-DR sulla superficie di monociti CD14+, ed esiste anche una correlazione tra il numero assoluto di monociti CD14+ e il numero assoluto di linfociti, che sono frequentemente diminuiti nei pazienti con COVID-19 gravi (vedi oltre). Il tocilizumab, un anticorpo monoclonale che blocca l’IL6, ristabilisce l’espressione delle molecole HLA-DR sui monociti e aumenta anche il numero dei linfociti17.

La risposta dei linfociti T al SARS-CoV-2

Molto recentemente, è stato dimostrato che si ha una forte risposta da linfociti T CD4+ e CD8+ nel 70–100% dei PBMC prelevati da pazienti con COVID-19, rispetto a pazienti non esposti al virus.

In particolare, i linfociti T CD4+ sono attivati quando i PBMC sono esposti a epitopi della proteina spike (S), meno da epitopi della proteina di membrana (M) e del nucleocapside (N). Le cellule CD8+ sono attivate da epitopi derivati da M ed S, con almeno altre otto cornici di lettura aperte (ORF, Open Reading Frame)19. Inoltre, i pazienti con COVID-19 producono anticorpi anti-S a livelli corrispondenti all’ampiezza dell’attivazione dei linfociti T CD4+ specifici per S, e anche le risposte dei linfociti T CD4+ e CD8+ sono ben correlate. Questa osservazione conferma il ruolo dei linfociti T CD4+ nell’aiutare i linfociti B a produrre anticorpi e a orchestrare una risposta T CD8+.

Infine, in linea e in supporto di quanto detto nel paragrafo precedente, in merito a un’immunità protettiva crociata, nel 40–60% degli individui non esposti, sono stati riscontrati linfociti T CD4+ contro CoV-219. Di rilievo e in contrasto con altri coronavirus, inclusi SARS-CoV e MERS-CoV, che inducono risposte CD4+ e CD8+ specifiche per S, M ed N, il CoV-2 presenta un insieme di antigeni più ampio, capace di stimolare una risposta T CD4+ e CD8+, incluse una varietà di ORF19.

Gli anticorpi anti-CoV-2

È stato ampiamente dimostrato che il CoV-2 induce una risposta anticorpale nei pazienti con COVID-19, con le immunoglobuline M che emergono nella fase acuta della malattia e le IgG in tempi successivi1.

Gli anticorpi compaiono da 5 a 10 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi. Tuttavia, in alcuni casi sono stati riportati tempi differenti di sieroconversione, con picchi di IgM e IgG rispettivamente a 17–19 e 20–22 giorni dall’insorgenza dei sintomi.
Le IgA, che mediano l’immunità delle mucose e possono ridurre l’adesione del virus all’epitelio della mucosa, sono state rilevate nei pazienti con COVID-19, con un’insorgenza intermedia rispetto a quella delle IgM ed IgG.

Curiosamente, e a supporto della grande importanza della risposta umorale per contrastare il COVID-19, in età pediatrica, in cui si osservano una minor suscettibilità all’infezione e sintomi più lievi, sono stati rilevati alti livelli di IgG entro la prima settimana dopo la manifestazione della malattia, con IgM praticamente nulle, indicando una sieroconversione molto rapida da IgM ad IgG. Questo potrebbe anche render conto del numero sottostimato di pazienti pediatrici asintomatici20.
Usando il dominio di legame al recettore (RBD, Receptor Binding Domain) di S come esca, sono stati isolati i linfociti B memoria da pazienti con COVID-19 guariti e quattro anticorpi prodotti da queste cellule si sono dimostrati efficaci nel legare l’RBD di CoV-2 ma non di SARS-CoV-2. Tra questi anticorpi, due (H4 e B28) hanno mostrato attività neutralizzante, cioè, impediscono il legame di S ad ACE2. In particolare, all’interfaccia B38-RBD sono impiegati 18 dei 21 amminoacidi coinvolti nel legame ACE2-RBD, il che spiega perché il B38 blocca il legame di COV-2 ad ACE221. Significativamente, gli anticorpi B38 e H4 hanno mostrato di essere protettivi nei confronti della COVID-19 in un modello murino della malattia21.

[Agg. 16/9/2020] L’entità della risposta anticorpale dipende dall’entità della malattia. Più gravi sono le condizioni cliniche dei pazienti, più elevato è il titolo anticorpale. Basti pensare che questo è di 3000 volte più alto nei pazienti ospedalizzati che non in quelli in sorveglianza domiciliare o nei donatori di plasma convalescente. La stessa attività neutralizzante degli anticorpi è più elevata nei malati gravi rispetto a quelli lievi27. È stato anche osservato che a un basso livello anticorpale corrisponde un perdurare della positività all’RNA virale nei casi di malattia lieve28. Per quanto riguarda la durata, la letteratura scientifica è concorde nell’affermare che l’immunità umorale contro il SARS-CoV-2 si esaurisce nell’arco di 2–3 mesi29. Tuttavia, la stimolazione di linfociti T e B garantisce l’acquisizione di un’immunità cellulare19. Di particolare rilievo è la recente scoperta che anche le persone che non sono state infettate o che non sono state in contatto con malati di COVID-19 o infetti da SARS-CoV-2, possiedono linfociti T memoria stimolati da e specifici per il SARS-CoV-2, che riconoscono la proteina del nucleocapside (N) di SARS-CoV e le proteine non strutturali nsp7, 13 ed N di altri β-coronavirus30. Ciò suggerisce che l’incontro occasionale con altri β-coronavirus, incluso SARS-CoV, induce un’immunità cellulare specifica contro il SARS-CoV-230. [fine agg.]

[agg. 23/03/2021] Recentemente, circa 30 000 pazienti precedentemente affetti da COVID-19, e potenziali donatori di plasma convalescente, sono stati analizzati per la quantità e persistenza di anticorpi contro CoV-2. Questa analisi ha evidenziato un titolo variabile di anticorpi, con le persone che possedevano titoli più alti caratterizzati anche da una maggior quantità di anticorpi neutralizzanti. Cosa più importante, gli anticorpi individuati perduravano per tutto il tempo dell’osservazione (5 mesi, da aprile a ottobre 2020), suggerendo, quindi, una persistenza dell’immunità umorale oltre i 2-3 mesi stimati in precedenza31. Inoltre, è stata dimostrata la presenza di cellule memoria sia B sia T che suggeriscono la formazione di una memoria immunitaria persistente. I linfociti B di memoria analizzati producono soprattutto anticorpi contro Spike e contro la proteina del nucleo capside, mentre le cellule T appartengono alla classe dei linfociti T helper follicolari, ossia quelli che favoriscono la maturazione dei linfociti B all’interno dei linfonodi32.
Inoltre, nonostante gli anticorpi neutralizzanti, cioè quelli diretti contro il dominio di legame al recettore di Spike, di persone con la variante D614G di CoV-2 non riconoscano la variante sudafricana, esistono anticorpi policlonali diretti contro altre porzioni della proteina che contribuiscono alla protezione anticorpale contro questa variante anche in persone che non sono stati precedentemente in contatto con essa33.[fine agg.]

La deregolazione del sistema immunitario nella COVID-19: linfopenia ed eosinopenia

Nella letteratura sono stati riportati molti casi in cui si è osservata una linfopenia nei pazienti con COVID-19 in condizione critica, che colpisce soprattutto i linfociti T, inclusi i linfociti T regolatori (Treg, che giocano un ruolo importante nel limitare risposte immunitarie eccessive). In alcuni casi, anche le cellule NK diminuiscono e i linfociti B sono ridotti al limite inferiore dei valori di riferimento22.
Il decremento del numero dei linfociti può essere usato come marcatore diagnostico e prognostico per la COVID-19. In effetti, i pazienti con linfociti T più alti del 20%, a 10–12 giorni dalla comparsa dei sintomi sono stati classificati come lievi-moderati; al contrario, nella stessa finestra temporale, i pazienti con linfociti T più bassi del 20% sono stati classificati come gravi. A circa 20 giorni dalla diagnosi, i pazienti con più del 20% di linfociti T sono stati dichiarati in fase di recupero; i pazienti con una percentuale di linfociti T tra il 5 e il 20% sono stati classificati ad alto rischio, laddove i pazienti con una percentuale di linfociti T inferiore al 5% sono stati dichiarati critici. Il meccanismo molecolare sottostante questo fenomeno è, tuttora, sconosciuto.
Nei PBMC da pazienti con COVID-19 è stata osservata un’attivazione della proteina p539, suggerendo che i linfociti T potrebbero diminuire per apoptosi. Questa possibilità è anche corroborata dal fatto che i linfociti T possono essere infettati da CoV-223.
La linfopenia potrebbe anche dipendere dalla carica virale alla quale una persona è esposta. Le basse cariche virali possono indurre una risposta dei linfociti B e T appropriata e la comparsa di anticorpi neutralizzanti, risultante nell’eliminazione del virus. Alte cariche virali possono causare una risposta eccessiva e una prognosi sfavorevole1.
Un altro parametro da tenere in considerazione è la conta degli eosinofili. Gli eosinofili agiscono nella risposta immunitaria adattativa e producono molecole antivirali. Inoltre, servono come APC contro i virus respiratori. Un numero costantemente ridotto di eosinofili è stato osservato nei pazienti con COVID-19, quando comparato con quello di pazienti affetti da polmonite24,25. Questo fenomeno potrebbe dipendere da differenti fattori: esaurimento delle cellule immunitarie, blocco della produzione degli eosinofili nel midollo osseo (eosinofilopoiesi) o reclutamento al sito di infezione, anche se, dalle autopsie, non è stato osservato alcun accumulo di eosinofili nei polmoni di pazienti infetti da CoV-2 e deceduti26.

Conclusioni

I pazienti in condizioni critiche mostrano alti livelli di citochine, specialmente di IL6, che riduce il numero di monociti CD14+ e di linfociti, in un circuito a feedback negativo, in quanto i monociti CD14+ e i linfociti sono i maggior produttori di IL6 nei pazienti con COVID-1917.
Il basso numero di Treg non è sufficiente a contrastare la risposta immunitaria eccessiva, in quanto potenziano questa deregolazione. La quantità della carica virale è importante nel determinare la gravità della malattia, contro la quale, tuttavia, l’organismo è in grado di indurre, in maniera robusta, una risposta umorale e mediata dalle cellule T19,21. Nel complesso, queste osservazioni stabiliscono degli ottimi presupposti per la messa a punti di terapie efficaci e vaccini.

Per i non esperti

Trascrittomica

La trascrittomica è la disciplina che studia gli RNA espressi in una cellula o in un tessuto in un determinato momento.

Le citochine

Le citochine sono proteine che non hanno una specificità antigenica, prodotte da un’ampia varietà di cellule (per esempio, da periciti, astrociti, cellule epiteliali, endoteliali e muscolari) e anche da cellule immunitarie. Sono prodotte in risposta a stimoli precisi, per la comunicazione tra le cellule e tra cellule, organi e tessuti.
Sotto stimolo da citochine, una cellula può proliferare, differenziare o persino morire. Le citochine possono agire:

  • in maniera autocrina, cioè possono agire sulla stessa cellula che le produce;
  • in modo paracrino quando la loro azione si esplica su cellule vicine;
  • con modalità endocrina, quando agiscono su distretti lontani dal loro sito di produzione.

Le citochine prodotte dal sistema immunitario vengono comunemente dette linfochine e appartengono a famiglie differenti a seconda della struttura, dei recettori e dei meccanismi di trasduzione del segnale4.
Sono citochine le interleuchine, gli interferoni (IFN), le chemochine (CC) e i fattori di necrosi del tumore (TNF, Tumour Necrosis Factor).
Le citochine sono rilasciate da molte cellule immunitarie, tra cui linfociti B e T, cellule natural killer (NK), macrofagi, monociti, cellule dendritiche e neutrofili.

Gli interferoni

Gli interferoni sono citochine prodotte da cellule tissutali, leucociti e anche da cellule tumorali. Tipicamente, la loro produzione è attivata da particelle virali, per questo la funzione primaria degli interferoni è la repressione della replicazione di cellule infette; inoltre, potenziano la risposta immunitaria, inducendo l’espressione dei geni appartenenti al complesso maggiore di istocompatibilità (MHC, Major Histocompatibility Complex; negli esseri umani HLA, Human Leucocyte Antigen System, ossia sistema antigenico leucocitario umano) e attivando le cellule immunitarie, come i macrofagi e le cellule NK (Natural Killer).

Il sistema HLA

Il sistema HLA è costituito da proteine di superficie che riconoscono ciò che è proprio (self) da ciò che non lo è. Queste proteine sono divise in due classi (I e II). La classe I è espressa da tutte le cellule nucleate, mentre la classe II è espressa da cellule specializzate, chiamate cellule presentanti l’antigene (APC, Antigen Presenting Cell). Le proteine di entrambe le classi presentano i peptidi al sistema immunitario, per cui sono la prima solida difesa contro i patogeni.
Il sitema HLA comprende più di 220 geni, localizzati sul braccio corto del cromosoma 6, con più di 27 000 alleli (un allele è la versione alternativa di un gene, presente nella stessa posizione su cromosomi omologhi).
Secondo la nomenclatura del Comitato per i fattori del sistema HLA dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, i geni del sistema HLA sono indicati con HLA- seguito da una lettera o una sigla (A, B, C, DR ecc.) che indica il gene, un asterisco, un numero che indica l’allele, il segno dei due punti e un secondo numero che indica la proteina specifica (per esempio, HLA-A*02:02 indica gene nel locus A, allele 2, proteina 2). La nomenclatura completa può comprendere anche altre informazioni.

Virus respiratori e attivazione della risposta immunitaria

Una volta che un virus respiratorio è entrato nelle cellule epiteliali delle vie respiratorie, i suoi peptidi sono presentati dalle molecole HLA di classe I ai linfociti T citotossici CD8+, che vanno incontro a espansione clonale e danno luogo a cellule effettrici specifiche per il virus e cellule memoria. Nel frattempo, le molecole di classe II, sulla superficie delle APC, attivano i linfociti T CD4+.

Gli anticorpi

Gli anticorpi (Ab), o immunoglobuline (Ig), sintetizzati da linfociti B e plasmacellule, rappresentano la nostra risposta umorale ai patogeni. Possono indicare alle nostre “cellule spazzino”, i macrofagi, quali cellule sono infettate e devono essere eliminate, possono attivare il sistema del complemento, che distrugge i patogeni, o possono interferire col legame dei virus alle cellule, neutralizzando la loro capacità infettiva.
Le immunoglobuline sono classificate in diversi tipi a seconda della loro struttura (IgA, IgD, IgG, IgE, IgM). Le prime a comparire durante una risposta umorale solitamente sono le IgM.

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