Signora triste

COVID-19: impatto sulla salute mentale

 

di Liliana Dell’Osso, Barbara Carpita, Carlo Antonio Bertelloni, Valerio Dell’Oste, Camilla Gesi, Claudia Carmassi
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa


Indice dei contenuti

Per i non esperti

Bibliografia


Introduzione

Da alcuni mesi lo scenario globale è dominato da un’emergenza sanitaria, economica e sociale senza precedenti, conseguita alla diffusione, ormai a livello pandemico, del virus SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome COronaVirus 2) e della malattia (COVID-19, COrona Virus Disease 19) di cui è agente eziologico. Già da diversi anni, la valutazione del rischio concreto di una next big one (prossima grande epidemia) e di quali misure implementare per contrastarlo sono state al centro del dibattito scientifico. Basti pensare che nel 2012 David Quamman, nel suo libro Spillover, aveva preannunciato che “il prossimo Ebola” sarebbe emerso in un mercato della Cina1. Le testimonianze iniziali di una forma di polmonite atipica, associata in seguito al SARS-CoV-2, risalgono agli ultimi mesi del 2019 e alla città di Whuan, nella provincia cinese dell’Hubei, mentre i primi casi nei Paesi occidentali vengono accertati in Italia nella cittadina di Codogno (Lodi) a fine febbraio 2020. Solo pochi giorni più tardi, l’11 marzo 2020, la World Health Organization, preso atto della rapidità con cui l’epidemia ha varcato confine dopo confine, conquistando in breve tempo il vecchio continente ed avviandosi a raggiungere il continente americano, dichiara ufficialmente lo stato pandemico.

Gli studi effettuati sulle epidemie degli ultimi decenni, come SARS, MERS e l’influenza H1N1, cosi come le ricerche effettuate all’indomani di altri tipi di catastrofi, ci hanno mostrato le possibili implicazioni psicopatologiche legate a eventi inaspettati e massivi, che mettono a rischio la salute e l’incolumità degli individui e minano la stabilità delle comunità. Questi studi mostravano già in maniera chiara che gli effetti della rapida diffusione di un’epidemia vanno ben oltre la morbilità e la mortalità dei contagiati, impattando in maniera forte vari ambiti della vita quotidiana di tutta la popolazione, con inevitabili ricadute sulla salute mentale. A conferma, un numero sempre maggiore di dati sta mostrando proprio adesso come il panico e lo stress legati alla COVID-19 possano essere più diffusi, ed egualmente devastanti sul piano sociale, del virus stesso.

Un evento globale

La pandemia COVID-19 rappresenta una catastrofe di dimensioni planetarie, il primo evento traumatico su scala mondiale nella storia dell’umanità più recente. Nonostante il grado di esposizione individuale a un evento traumatico di questo tipo sia estremamente variabile per vari fattori ambientali, personali e professionali, esso può essere per certi versi considerato un “esperimento in vivo” di psicopatologia delle masse: la popolazione mondiale, eterogenea per ragioni geografiche, economiche e culturali, viene esposta in modo estremo e persistente allo stesso trauma nel volgere di breve tempo1. In ambito di ricerca, potremmo discutere se il contesto di questa pandemia possa essere considerato a pieno titolo un evento traumatico secondo i canoni della nosografia psichiatrica ufficiale; tuttavia, visti i molteplici, talora estremi, effetti negativi della pandemia sul piano psicologico, economico e sociale, oltre che su quello meramente sanitario, questa discussione rischierebbe la deriva di una disputa sterile e tecnicistica. Infatti, molti vissuti legati alla pandemia, quali l’improvvisa minaccia alla propria vita e a quella dei propri cari, la perdita di speranza e di prospettive future, il senso di impotenza e il sentimento di cambiamento irreversibile della nostra vita sono a tutti gli effetti manifestazioni psicopatologiche tipiche che fanno seguito all’esposizione a un evento traumatico estremo2,3. Diversi gruppi di ricerca hanno mostrato negli ultimi mesi un aumento del disagio psichico nei soggetti con una patologia psichiatrica preesistente, negli operatori sanitari, ma anche nella popolazione generale4,5,6. In particolare, la prevalenza di sintomi d’ansia, depressione e soprattutto disturbo post-traumatico da stress (PTSD) appare molto variabile, dal 7% fino al 53% nei vari campioni analizzati6. La letteratura disponibile individua diversi fattori di rischio per lo sviluppo di questo tipo di conseguenze psicopatologiche, come la residenza in zone intensamente colpite dall’evento traumatico, il sesso femminile, l’isolamento, le difficoltà economiche, i lutti, un preesistente ambiente familiare violento. D’altra parte, sono stati anche individuati dei fattori di resilienza specifici, come strategie individuali particolarmente efficaci di adattamento agli eventi, l’aumento della coesione sociale e la presenza di strutture e sistemi di supporto. A questo proposito, seppur in apparenza paradossale, l’aumento dell’inclusione e del supporto sociale durante il lockdown potrebbero aver favorito un iniziale, transitorio miglioramento di alcuni quadri psicopatologici1. Per comprendere tutto questo dobbiamo innanzitutto ricordare quello che le catastrofi del passato ci hanno insegnato.

I traumi di massa

La letteratura scientifica disponibile ci può aiutare a valutare i possibili esiti della pandemia da COVID-19 sulla salute mentale. Infatti, esistono numerosi studi che hanno valutato gli aspetti psicopatologici nelle popolazioni esposte a eventi e situazioni catastrofiche naturali o indotte dall’essere umano, come l’attacco terroristico alle Torri gemelle del 2001, lo tsunami nell’Oceano Indiano del 2006, i terremoti di L’Aquila del 2009 e di Haiti del 2010, il disastro di Fukushima del 2011. Tutte queste situazioni hanno determinato degli effetti psichici assimilabili a schemi comuni: in particolare, l’effetto più caratteristico nel lungo periodo nelle popolazioni colpite è quello di favorire l’insorgenza di PTSD, non tanto e non solo nella sua forma a piena espressività clinica, ma con frequenza finanche maggiore nelle sue forme parziali o sottosoglia2,7.

Una delle situazioni più simili, per il comune contesto territoriale e culturale, alla situazione italiana all’indomani dell’inizio della pandemia, è quella del terremoto di L’Aquila del 2009. In uno studio in collaborazione tra le Università di Pisa e di L’Aquila (2009–in corso), condotto su oltre 2000 sopravvissuti al terremoto, sono stati riscontrati tassi di PTSD del 37,5% dopo dieci mesi dall’evento, e un ulteriore 30% di forme subcliniche altrettanto invalidanti8,9,10. L’esperienza di L’Aquila ha evidenziato come gli effetti psicosociali di un evento di massa si modificano profondamente nel tempo. Subito dopo il terremoto, infatti, gli operatori dei servizi psichiatrici poterono notare un iniziale miglioramento del quadro clinico negli individui con disturbi psichici cronici, dovuto proprio alle maggiori possibilità di supporto e inclusione con conseguente diminuzione dell’isolamento sociale. Nello stesso periodo sono stati anche descritti un aumento del tasso di natalità e una riduzione delle morti per suicidio, indicatori di una maggiore resilienza della popolazione generale a seguito di eventi traumatici condivisi. Purtroppo, dopo questa iniziale “luna di miele”, la salute mentale nella popolazione colpita è andata incontro ad un progressivo peggioramento, con un aumento dell’incidenza di disturbi dell’umore, d’ansia, PTSD, abuso di sostanze e comportamenti auto- o eteroaggressivi11,12. In particolare, è stata mostrata un’associazione significativa tra suicidalità e sesso maschile nei sopravvissuti con PTSD, suggerendo che i maschi tendevano a presentare peculiari sintomi da stress post-traumatico, afferenti all’area sintomatologica dei comportamenti maladattativi, recentemente inclusi nel DSM-5 tra i criteri diagnostici per il PTSD.

Nell’alveo di quest’area si situa un ampio spettro di sintomi, che sono espressione di gradi variabili di intenzionalità autolesiva e che vanno dalla scarsa cura di sé e della propria salute (per esempio, sospendendo le terapie prescritte), alla guida spericolata, al sesso promiscuo e non protetto, all’uso di alcol, sostanze o droghe, fino agli agiti autolesivi o francamente suicidari. Oltre al genere maschile, anche un’età più giovane si è rilevata essere un importante fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti maladattativi in soggetti sopravvissuti a un trauma di massa. Infine, studi recenti sui sopravvissuti al terremoto de L’Aquila hanno confermato un’associazione tra la presenza di sintomi di PTSD ed alterazioni della sfera neurovegetativa, comprendenti disturbi alimentari, disturbi somatici (tra cui dolore cronico, disturbi gastrointestinali, cefalea e ipo/ipersensibilità da stimoli termici/dolorosi) e disfunzioni sessuali che persistono anche a distanza di molti mesi dall’evento traumatico, suggerendo la necessità di identificare precocemente tali sintomi atipici nei soggetti ad alto rischio13,14.

Individui a rischio

Se da un lato è vero che la pandemia è un evento globale che ci coinvolge tutti, essa può innescare traiettorie psicopatologiche molto diverse, secondariamente a vari aspetti di natura personale e ambientale. È, infatti, l’interazione tra trauma e vulnerabilità individuale, e non la sola entità o gravità di esposizione al trauma, a produrre esiti psicopatologici differenti1,2. Posta questa premessa, è fondamentale considerare che esistono differenti categorie di soggetti esposti a rischio di sviluppare disturbi mentali nel contesto della presente pandemia.

  • Innanzitutto, vi sono gli individui che erano già affetti da un disturbo psichico. Come chiunque nella comunità, questa categoria ha dovuto, nel medio-lungo periodo, confrontarsi con l’isolamento e la paura del contagio. In questi casi la rete di relazioni sociali, già fragile in partenza, e la vulnerabilità legata alla malattia stessa, hanno acuito con l’andare del tempo i sentimenti di solitudine e lo stress. Gli studi sulla popolazione cinese durante la prima fase della pandemia hanno mostrato come i soggetti con disturbi psichici preesistenti sviluppassero forme più gravi di ansia, depressione e PTSD rispetto alla popolazione generale6. Verosimilmente in questi soggetti le condizioni stressanti possono esacerbare i sintomi di malattia o determinarne una recrudescenza, favoriti anche dal ridotto accesso alle cure durante il lockdown. Proprio per questo nei prossimi mesi è auspicabile un maggior impiego di strategie di telemedicina, come possibile strumento capace di facilitare l’accesso alle cure ed allo stesso tempo consentire il distanziamento sociale15.
  • Anche i soccorritori e i sanitari impegnati nell’emergenza COVID-19 presentano un rischio elevato di manifestare sintomi psichici4,16. Per questi soggetti il timore di venire contagiati e di contagiare i propri cari si è unito all’essere stati esposti a ritmi di lavoro serrati, alla necessità di isolarsi e di non fare ritorno al domicilio per non essere veicolo di infezione per i parenti, nonché a una pericolosissima alterazione forzata dei ritmi sonno-veglia. Il primo scenario che ha indicato i rischi psicosociali di questa categoria professionale è stato l’attentato terroristico al World Trade Center del 2001, a seguito del quale molti soccorritori hanno presentato un deterioramento cronico della salute fisica e mentale e del funziona-mento sociale17. Peraltro, i lavoratori del settore sanitario sembrano essere stabilmente esposti ad elevati livelli di patologia da stress, come mostrano gli studi condotti dal nostro gruppo sul personale sanitario del pronto soccorso, della medicina d’urgenza e della rianimazione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (Pisa, Italia) prima della pandemia da COVID-1918,19, i quali avevano evidenziato tassi di PTSD tra il 10 ed il 20%, con i valori maggiori nelle donne e nei soggetti con minore preparazione professionale, e una correlazione tra la gravità del quadro clinico e l’entità della compromissione socio-lavorativa.
  • I soggetti che hanno subito la perdita di una persona cara rappresentano un’altra categoria a forte rischio di sviluppare reazioni patologiche20,21. L’elaborazione alterata del lutto (lutto complicato), ma anche la sintomatologia post-traumatica, sono state verosimilmente favorite anche da alcuni aspetti contingenti alla pandemia, come l’impossibilità di dire addio ai propri cari, a causa delle forti restrizioni imposte per gli accessi dei congiunti in ospedale, o l’enfasi posta a livello mediatico sul coinvolgimento dell’esercito nella gestione delle salme22.
  • Anche essere contagiato e confrontarsi con la paura della morte in prima persona o aver creduto di essere sul punto di perdere un proprio caro rappresentano eventi traumatici importanti che comportano un rischio di sviluppare sintomi psicopatologici1. Secondo vari studi epidemiologici condotti sulle popolazioni esposte alle epidemie di SARS o MERS, questi individui sono quelli maggiormente a rischio di sviluppare sintomi di PTSD anche a causa delle possibili sequele mediche a lungo termine dell’infezione6.
  • Vi sono poi i soggetti con contesti familiari critici, per cui essere rimasti chiusi in casa può aver rappresentato un ulteriore fattore stressante: si pensi all’aumento delle violenze in ambito domestico, denunciato a più riprese in questo periodo.
  • Infine, anche fra gli individui che vivevano nelle regioni meno esposte e hanno avuto la possibilità di restare nelle proprie case, in un buon contesto familiare, una buona parte ha subito perdite economiche anche ingenti come conseguenza del blocco delle attività dovute al lockdown: molti hanno perso il lavoro o sono stati costretti a chiudere la propria attività, così da non saper come continuare a provvedere a sé stessi e ai propri figli1. Diversi ricercatori hanno mostrato, infatti, come le problematiche economiche possano fortemente contribuire allo sviluppo di disturbi psicopatologici a seguito di un trauma di massa23. Tra i suicidi riportati in questi mesi, vi sono, spesso, quelli di imprenditori colpiti dalla crisi economica associata alla pandemia. Ciò che lo scenario della pandemia potrà determinare in queste categorie di persone non sarà una semplice ansia eccessiva, ma dei veri e propri quadri clinici specifici e insidiosi, che si possono sviluppare come reazioni patologiche ad eventi di vita particolarmente negativi, stressanti o traumatici: il PTSD ed il lutto complicato.

Il disturbo post-traumatico da stress 

La parola trauma deriva dal greco τραῦμα (ferita) e identifica un evento negativo che si caratterizza per imprevedibilità e intensità. Abitualmente usato in medicina per indicare lesioni fisiche a tessuti o organi del corpo, in ambito psichiatrico questa parola assume una valenza diversa, più complessa e profonda. Il trauma psichico ha come conseguenze emozioni negative, smarrimento e confusione, che possono accompagnarsi e articolarsi con una serie di sintomi comportamentali e con una compromissione del funzionamento tali da configurare quadri psicopatologici specifici, accomunati dall’essere connessi ad un evento ben definito e per questo motivo riuniti nella categoria dei disturbi correlati al trauma e allo stress2. Quale che sia la natura dell’evento traumatico, questo può portare chi vi è sottoposto a sviluppare un’ampio spettro di disturbi, tra i quali il più peculiare e grave è chiamato disturbo da stress post-traumatico (PTSD, Post-Traumatic Stress Disorder)2,24.

Questo disturbo si caratterizza per la presenza di sintomi intrusivi, quali ricordi involontari dell’evento, sogni o flashback, e dallo scatenarsi di reazioni di intensa sofferenza, accompagnate anche da manifestazioni somatiche neurovegetative, in seguito all’esposizione a stimoli che possano ricordare, anche indirettamente, l’esperienza traumatica. Da evidenziare le ruminazioni collegate all’evento traumatico, che sembrano favorire sia l’insorgenza del PTSD che di altre complicanze a esso associate25,26. Ne consegue l’autoperpetuarsi delle alterazioni psicobiologiche insorte dopo il trauma e l’incapacità dell’organismo di ritornare alle condizioni di omeostasi precedenti all’esposizione27. Tutto questo porta il soggetto all’evitamento di stimoli che possano essere collegati all’evento, sia elementi esterni quali luoghi, persone, attività, ma anche esperienze soggettive come ricordi o pensieri.

Altre manifestazioni tipiche del disturbo riguardano la distorsione di pensieri legati alle cause e alle conseguenze dell’evento, una visione negativa e colpevolizzante di sé stessi oltre che convinzioni e aspettative orientate alla sfiducia e alla diffidenza verso il mondo esterno. A questo quadro, già complesso, spesso si associano alterazioni negative dell’umore: il soggetto si sente privato delle emozioni, riscontra difficoltà a fidarsi degli altri ed è pervaso da un senso generale di futilità. Se sin da subito il soggetto può non riuscire a ricordare alcuni aspetti dell’evento traumatico, per effetto di un’amnesia dissociativa, più avanti la dissociazione può manifestarsi nella forma dell’ottundimento affettivo (numbing), vale a dire la sensazione di non provare più alcuna emozione e un sentimento di estraneità verso il mondo circostante: si avrà la sensazione di vederlo dall’esterno, come se fosse un film, e persino le percezioni corporee sembreranno attutite, come se il corpo non fosse il proprio (sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione). Si constata spesso un incremento patologico della vigilanza (hyper-arousal), con risposte di allarme eccessive anche per stimoli di poco conto, unite a una sensazione di essere costan-temente “sul filo del rasoio”, con difficoltà a prendere sonno e a concentrarsi, irritabilità e facili scoppi di collera. Il soggetto proverà sentimenti di paura, vergogna o rabbia;  l’impulsività aumenta soprattutto negli uomini, e con essa la possibilità che vengano messi in atto comportamenti pericolosi/maladattativi11,12,28, quali la guida spericolata, l’abuso di alcol e sostanze psicoattive, i comportamenti autolesionistici, i tentativi di suicidio. Nelle donne, invece, prevarranno sintomi quali trascuratezza, ridotta cura di sé, perdita di interessi.

Oltre a quadri conclamati di PTSD, nei prossimi mesi potremmo osservare, forme parziali e subcliniche, particolarmente insidiose perché non giungono all’osservazione medica, pur mostrando pari importanza in termini di sofferenza soggettiva, decorso cronico, compromissione del funzionamento psicosociale e rischio suicidario7. Queste forme parziali di PTSD sono state riscontrate in diverse popolazioni esposte a catastrofi naturali o a traumi causati dagli esseri umani, cosi come nei soccorritori e negli operatori dell’emergenza.

Un recente studio condotto dal nostro gruppo di ricerca sul corpo della Marina Militare Italiana impiegata nel soccorso e nel recupero di corpi in mare ha evidenziato tassi di PTSD conclamato nel 7,5% dei soggetti e di PTSD parziale in una percentuale molto più alta (22%)29. Anche in un gruppo di professionisti altamente formato e preparato, come quello della Marina Militare, l’esposizione ripetuta a gravi eventi traumatici come il naufragio della Costa Concordia del 2012, il crollo della torre del porto di Genova del 2013 e il recupero di decine di migranti naufraghi durante le operazioni Mare Nostrum e Triton hanno portato allo sviluppo di PTSD o di quadri da stress post-traumatici subclinici ma che possono influenzare negativamente i livelli di adattamento dei soggetti anche nel lungo periodo. Alla luce di queste evidenze scientifiche, ci dovremo preparare a gestire situazioni simili negli operatori sanitari che per mesi stanno affrontando la pandemia in prima linea.

Il lutto complicato

La morte di una persona cara rappresenta un’esperienza comune e universale, in grado di compromettere, seppur in maniera transitoria, il benessere psicofisico e sociale dell’individuo. Il lutto, per quanto doloroso e talora drammatico, è tuttavia considerato una risposta fisiologica, che non richiede un trattamento medico. Le reazioni da lutto, soprattutto nella fase acuta, possono comprendere sentimenti di profonda tristezza e nostalgia, di perdita irrimediabile, ricordi e immagini automatiche ed intrusive della persona scomparsa e un ripiegamento nella propria interiorità e nel proprio dolore. Solitamente queste manifestazioni evolvono con il trascorrere del tempo, riducendosi in intensità e pervasività, parallelamente alla progressiva riorganizzazione emotiva e cognitiva dell’individuo, volta alla consapevolezza che la persona amata non tornerà più e all’accettazione di questo tipo di eventi20. In una piccola percentuale di casi, tuttavia, questa evoluzione non avviene, e la processazione del lutto diviene indefinitamente lunga e dolorosa.

Diversi studi si sono focalizzati sulla distinzione tra processi normali e processi “patologici” di elaborazione del lutto con lo scopo di individuare le caratteristiche del lutto “non risolto”, definendo un’entità nosografica autonoma, chiamato lutto prolungato o complicato (CG, Complicated Grief). Dopo un lungo dibattito tra esperti, questo nuovo disturbo è stato inserito nella quinta edizione del DSM-52, con il nome di “disturbo da lutto persistente complicato”, all’interno delle “Condizioni che necessitano ulteriori studi”. Il CG è caratterizzato dalla persistenza, oltre sei mesi dalla perdita, delle manifestazioni acute del lutto, ed è caratterizzato da sentimenti di nostalgia intensi e ricorrenti, desiderio di ricongiungersi con la persona amata fino, in alcuni casi, al desiderio di seguirne il destino. La prevalenza di CG nella popolazione generale varia dal 2 al 7% (dal 2 al 10% delle persone che hanno subito un lutto), e aumenta in popolazioni a rischio, quali le donne, le persone anziane che hanno perso il coniuge, i soggetti che hanno subito un lutto per morte inaspettata/violenta, lutti conseguenti a traumi di massa (per esempio, incidenti, catastrofi, disastri, attentati).

Le catastrofi naturali, come la pandemia da COVID-19, implicano molteplici perdite di vite umane, e spesso sono associate a esposizioni multiple attraverso notiziari e social-media oltre che alla riduzione dei servizi e delle attività di supporto22. Inoltre, spesso i decessi per COVID-19 avvengono nei reparti ospedalieri di terapia intensiva, in completo isolamento dai propri familiari, senza che sia data possibilità a questi ultimi di poter dare un ultimo saluto al proprio caro, con sviluppo di marcati sensi di colpa che rappresentano un altro fattore di rischio per CG. Anche la scarsa comunicazione con il personale medico, legata alla necessità delle procedure anti-contagio e al sovraccarico delle strutture sanitarie e alle ristrettezze del personale durante la pandemia, può aumentare il rischio di sviluppare CG. Inoltre, l’isolamento e il distanziamento sociale, misure fondamentali per contenere il contagio epidemico, oltre che il divieto di assembramenti e la conseguente impossibilità di celebrare funerali pubblici, hanno contribuito marcatamente ad alterare la vita quotidiana degli individui, riducendo i livelli di supporto sociale e di accettazione del lutto, elementi protettivi nei confronti del CG.

Considerato quindi l’elevato numero di morti e i suddetti fattori di rischio, il numero di casi di CG potrebbe aumentare vertiginosamente a seguito della pandemia da COVID-19. Sono quindi necessarie specifiche strategie di intervento per ridurre l’impatto potenzialmente traumatico di queste perdite connesse alla pandemia COVID-19, individuando precocemente i possibili sintomi di insorgenza di un CG e fornendo un trattamento mirato nei soggetti a rischio.

Cenni di terapia

Sono state riscontrate specifiche disregolazioni di sistemi neurotrasmettitoriali e neuroendocrini nel PTSD30. I trattamenti psicofarmacologici sono quindi progressivamente entrati nella pratica clinica per la gestione del disturbo, in quanto potenzialmente efficaci su tutte le aree sintomatologiche (rievocazione, evitamento, alterazioni negative della cognitività e dell’umore, iperarousal). Tra questi, gli antidepressivi di tipo SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e SNRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina) sono le classi di farmaci di più provata efficacia nel trattamento del PTSD e raccomandati dalle recenti linee guida come trattamento di prima linea. Inoltre, dal momento che la diagnosi di PTSD prevede come criterio essenziale l’esposizione a un fattore di stress traumatico, i trattamenti psicosociali sono stati ampiamente utilizzati nella gestione del disturbo, in particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) focalizzata sull’elaborazione dell’evento che si è dimostrata ampiamente efficace.

Nell’ambito di queste terapie, sono state sviluppate anche tecniche di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, in particolare la eye movement desensitization and reprocessing (EMDR), basata sul modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione. Analogamente, i trattamenti di psicoterapia CBT focalizzati sul lutto e quelli psicofarmacologici con antidepressivi SSRI si sono rilevati potenzialmente efficaci nella terapia dei soggetti affetti da CG31.

Conclusioni

La pandemia da COVID-19 ha rappresentato, e ancora rappresenta, un’esperienza traumatica globale e collettiva, che ha posto ciascuno di noi a rischio di sviluppare reazioni patologiche indipendentemente dall’entità oggettivabile di ciò che abbiamo vissuto in termini di esposizione al virus. Le varie e multiformi costellazioni di microtraumi individuali, quali i lutti improvvisi e carichi di emotività, la preoccupazione per i nostri cari, l’apprensione per la crisi economica, il carico di stress in particolari settori lavorativi, la separazione sociale e così via, che abbiamo subito lungo tutto questo periodo, non sono un elemento di poco conto e molti di coloro che sono stati intensamente esposti o particolarmente suscettibili agli orrori di questi mesi, rischiano sequele psicopatologiche croniche che, se sottovalutate, possono determinare una riduzione del funzionamento psicosociale e un’aumentata probabilità di sviluppare differenti disturbi (psichiatrici e non) e comportamenti maladattativi di varia natura, fino agli agiti suicidari.

Per i non esperti

Il DSM-5

Il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali (DSM), la cui quinta edizione è stata pubblicata dall’American Psychiatric Association (APA) nel 2013, rappresenta uno dei sistemi di classificazione nosografica per i disturbi mentali più utilizzati a livello mondiale, sia nella pratica clinica sia nell’ambito del-la ricerca. A partire dalla prima edizione del 1952, e nelle sue successive versioni, il manuale è andato incontro a tentativi di miglioramento, acquisendo nuovi dati provenienti dalla ricerca scientifica internazionale. La struttura del DSM-5, fedele all’originario impianto ateorico e basato su categorie diagnostiche, è ampiamente condivisa dalla comunità psichiatrica e psicologica mondiale tanto da risultare di fatto utilizzata da organizzazioni sanitarie governative, da associazioni scientifiche, in ambiti legali, forensi e di medicina generale.

Il PTSD

Il PTSD è un disturbo mentale che può insorgere dopo eventi che comportino morte o minaccia di morte, lesioni gravi o violenze sessuali, a cui il soggetto sia stato esposto direttamente o indirettamente. L’esordio avviene solitamente entro i primi tre mesi dopo il trauma, anche se in alcuni casi a espressione ritardata il quadro clinico si sviluppa dopo sei o più mesi. Nel PTSD, il trauma riemerge in modo intrusivo nei ricordi del soggetto sotto forma di flashback, immagini vivide e incubi, associandosi a condotte di evitamento nei confronti di pensieri, luoghi, oggetti e situazioni che rievocano l’evento traumatico, a sintomi di ottundimento affettivo, ad alterazioni dell’umore, convinzioni e aspettative distorte e negative, oltre ad alterazioni della concentrazione, ipervigilanza (APA, 2013).

Il lutto complicato

Il lutto complicato (CG) si configura con la persistenza, oltre l’arco temporale di circa sei mesi dalla morte di una persona amata, delle manifestazioni acute del lutto, ed è caratterizzato da sentimenti di nostalgia intensi e ricorrenti, desiderio di ricongiungersi con la persona defunta fino, in alcuni casi, al desiderio di seguirne il destino. Il CG si caratterizza per la presenza di inconcludenti e interminabili ruminazioni, diurne e spesso notturne, su aspetti relativi alle possibili cause, circostanze e conseguenze del decesso e a quanto il soggetto poteva fare per evitarlo. Permangono sentimenti di incredulità o incapacità di accettare la morte, labilità emotiva e profonda tristezza, sentimenti di distacco dal mondo o dalle altre persone, indifferenza o difficoltà nel riporre fiducia negli altri. Talora i soggetti lamentano sintomi analoghi a quelli riportati dai defunti prima di morire, o possono sviluppare fenomeni allucinosici temporanei che possono coinvolgere tutte le sfere sensoriali, da quelle acustiche e visive, fino a quelle tattili e olfattive: si vede o si sente la presenza del defunto, se ne percepisce il contatto e si avvertono i suoi odori. Nel CG sono comuni disturbi del sonno, iporessia, xerostomia, astenia o facile faticabilità, così come l’esordio o l’intensificazione di condotte di abuso di alcol e tabacco, e una polarizzazione su idee di morte.

 

Bibliografia

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