di Barbara Illi1, Silvia De Francia2, Bianca Masturzo3, Alessandra Ruggiero4, Donato Amodio4, Pierangela Totta5, Tullia Todros2 e Sara Gandini6
1 Istituto di Biologia e Patologia molecolari – Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma
2 Università di Torino
3 Città della Salute e della Scienza, Torino
4 Ospedale pediatrico Bambino Gesù, Roma
5 Futura Stem Cells, Roma
6 Istituto Europeo di Oncologia, Milano
Indice dei contenuti
Ultimo aggiornamento: 30 settembre 2020
- Introduzione
- Differenze di genere: perché le donne si ammalano meno gravemente degli uomini
- La gravidanza
- ACE2 e pre-eclampsia
- La COVID-19 in età pediatrica
- Le manifestazioni cliniche in età pediatrica
- Perché bambini e bambine si ammalano meno?
- Aspetti sociali: i danni della chiusura delle scuole
- Suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2 e andamento clinico della COVID-19 in base all’etnia
- Che cosa ci dice la genetica
- Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
Perché le donne hanno una prognosi più faorevole degli uomini? Perché bambine e bambini sembrerebbero resistenti all’infezione? C’è una diffrenza nel tasso di infezione e di mortalità a seconda dell’etnia di appartenenza e perché?
Questo approfondimento vuola dare una risposta a queste domande, basate su dati osservazionali che hanno suggerito come alcune caratteristiche fisiologiche e/o genetiche, dipendenti da sesso, età ed etnia, possano influire sulla predisposizione all’infezione dal SARS-CoV-2 e sull’iter clinco e prognostico della COVID-19.
Differenze di genere: perché le donne si ammalano meno gravemente degli uomini
Da anni, chi si occupa di medicina di genere ha evidenziato come le malattie abbiano una epidemiologia e un decorso diverso nelle donne e negli uomini1. La pandemia di SARS CoV-2 ha acceso i riflettori su questa realtà (come d’altronde su molte altre). L’Italia, tramite l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), è stata uno dei Paesi che con più attenzione ha raccolto i dati disaggregati per sesso. È emerso chiaramente che le donne, in ogni fascia di età, hanno una probabilità di infettarsi simile a quella degli uomini, ma gli esiti, in termini di letalità, sono meno gravi fra le donne (ISS, dati COVID di settembre 2020).
I dati hanno dimostrato una percentuale di infetti modicamente più alta fra gli uomini nel mese di marzo, fra le donne nei mesi di aprile, maggio e giugno e poi nuovamente fra gli uomini da giugno a settembre 2020 (Figura 1). Il rapporto della frequenza di infezione fra donne e uomini è sostanzialmente simile per ogni classe di età, eccetto per la classe > 90 anni, laddove fra coloro che hanno contratto l’infezione 80% sono donne e 20% uomini.
La letalità aumenta con l’età sia fra gli uomini sia fra le donne, passando per l’intera popolazione degli infetti dallo 0,1%–1% per le classi < 50 anni in un crescendo fino al 30% per le classi di età superiore. Tuttavia, la letalità fra le donne è complessivamente del 10,3%, mentre è del 15,5% fra gli uomini e la percentuale di donne fra i deceduti è del 42,6% rispetto al 57,4% degli uomini.
La minore frequenza di morti fra le donne è significativa per tutte le classi di età fino agli 80 anni; oltre i 90 anni la proporzione si inverte, con una frequenza del 68% fra le donne e del 32% fra gli uomini. È probabile che questa differenza di comportamento (maggior numero di donne infette e maggior numero di decedute) sia dovuta al fatto che la popolazione femminile di età oltre 90 anni in Italia è molto più numerosa di quella maschile: 70% versus 30% (Dati ISTAT gennaio 2020).
I dati Italiani sono consistenti con quelli raccolti in alcuni altri Paesi dove è stata posta attenzione alla differenze di genere2. Se la maggiore attenzione è stata posta alle differenze di genere per esiti “hard”, non vanno dimenticate altre differenze, certamente anche importanti: le donne presentano più frequentemente alterazioni della salute mentale, quali depressione, ansia, sintomi da stress post-traumatico e disturbi del sonno3.
Il fattore più importante nel determinare la diversa epidemiologia dell’infezione da SARS-CoV2 è la diversa risposta immunitaria della donna rispetto all’uomo1,4, anche se possono entrare in gioco altri fattori quali gli stili di vita ed il lavoro2. La risposta immunitaria è l’insieme dei meccanismi di difesa che proteggono l’organismo dall’esposizione a sostanze estranee quali virus, batteri, parassiti, allergeni e tossine. Le cellule del sistema immunitario della donna hanno la capacità di attivare risposte più pronte, efficaci e durature rispetto a quelle degli uomini, rendendo le donne più resistenti alle infezioni (il risvolto negativo è che questo le rende più suscettibili all’insorgenza di malattie mediate dal sistema immunitario, cioè le malattie autoimmuni)4. Anche rispetto ai vaccini, le donne sviluppano risposte immunitarie più intense rispetto agli uomini, raggiungendo livelli anticorpali più elevati. Questo aspetto dovrà essere considerato nell’attuale ricerca di vaccini contro il SARS-CoV-2.
Alla base della diversa risposta immunitaria sono stati identificati tre tipi di fattori:
- genetici;
- ormonali;
- ambientali.
Per quanto riguarda l’aspetto genetico, il cromosoma X contiene molti geni coinvolti nella risposta immunitaria, sia innata sia adattativa. Le donne possiedono due copie del cromosoma X in ciascuna cellula, a differenza dei maschi che possiedono un X ed un Y. La trascrizione dei geni presenti in entrambi i cromosomi X porterebbe a un pericoloso aumento dell’espressione dei loro prodotti, fenomeno che viene evitato mediante l’inattivazione casuale di uno dei due cromosomi X. Tuttavia, talvolta, circa il 15% del cromosoma X sfugge a questo fenomeno, determinando la maggiore attivazione del sistema immunitario. Inoltre, nello specifico dell’infezione da SARS-CoV-2, uno dei geni che sfugge al fenomeno dell’inattivazione è quello che codifica per l’ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2), un enzima del sistema renina-angiotensina-aldosterone che trasforma l’angiotensina I in angiotensina 1–7 che ha effetto vasodilatatore.
L’ACE2 sarebbe pertanto maggiormente espressa nell’organismo femminile; inoltre l’ACE2 è la molecola a cui si lega il SARS-CoV-2 per entrare nelle cellule. Quando il virus lega l’ACE2 ed entra nella cellula fa diminuire l’espressione dell’ACE2 e la sottrae così allo svolgimento della sua funzione protettiva. Si può ipotizzare che la maggiore presenza di ACE2 nelle donne permetta di mantenere livelli adeguati anche quando il virus ne utilizza una parte per penetrare nei tessuti.
I modelli sperimentali animali suggeriscono che un’aumentata espressione di ACE2 conferisca un effetto protettivo in caso di danno polmonare acuto1.Per quanto riguarda la componente ormonale, gli estrogeni nella donna stimolano il sistema immunitario e la produzione di anticorpi (contrariamente agli androgeni che nell’uomo hanno effetto immunosoppressivo). Gli estrogeni a basse concentrazioni sono in grado di indurre una risposta immunitaria proinfiammatoria, mentre quando sono presenti a elevate concentrazioni attivano una risposta antinfiammatoria e immunosoppressiva. E, in effetti, la risposta immunitaria ai virus può cambiare al variare dei livelli ormonali, come avviene durante il ciclomestruale, con la contraccezione ormonale o con la terapia ormonale sostitutiva in menopausa2. Inoltre gli estrogeni avrebbero un ruolo nel modulare il sistema renina-angiotensina-aldosterone e nell’aumentare l’espressione di ACE2 in diversi tessuti.
Infine, devono essere considerati altri fattori. È stato osservato che malattie preesistenti, quali malattie polmonari croniche, ipertensione, e malattie cardiovascolari, o il fumo e l’alcol, che aggravano il decorso di COVID-19, sono meno frequenti nelle donne. Le donne inoltre sarebbero più attente nel mettere in pratica le indicazioni per la prevenzione dell’infezione, in particolare per quanto riguarda l’igiene personale1,2.
La gravidanza
Molta attenzione è stata posta alla popolazione di donne gravide, in quanto in generale le infezioni in gravidanza comportano un aumento di rischio per esiti avversi sia per le madri sia per i feti. In particolare, durante le precedenti epidemie dovute ad altri coronavirus, la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) nel 2003 e la MERS (Middle East Respiratory Syndrome) nel 2012, la mortalità materna e la frequenza di complicanze gravi sono state alte6,7,8.
I dati relativi agli esiti materni nelle infezioni da SARS-CoV-2 sono invece rassicuranti. In una metanalisi pubblicata a maggio del 20208 viene riportata una frequenza di ricoveri in terapia intensiva del 9%, necessità di ventilazione meccanica del 5% e nessun caso di morte materna, a fronte di 53%, 40% e 26% rispettivamente in caso di SARS e 44%, 41% e 28% rispettivamente in caso di MERS.
Uno studio italiano coordinato dall’ISS (Maraschini, 2020) riporta un’incidenza di infezioni fra le donne gravide di 2,1/1000 gravidanze, con differenze fra Regioni che riflettono la diversa diffusione della malattia (6,9/1000 donne gravide in Lombardia, la Regione più colpita)9. I primi risultati sono relativi agli esiti della gravidanza in 146 donne che a fine aprile avevano già partorito. Non si sono verificate morti materne. Nel 5% dei casi si è reso necessario il ricovero in terapia intensiva; tuttavia, nella metà circa di questi casi erano presenti fattori di rischio per la gravidanza preesistenti alla COVID-19 (obesità, ipertensione, malattie autoimmuni).
Nel Regno Unito, dove il sistema di sorveglianza è simile al nostro, l’incidenza di donne gravide ricoverate per COVID-19 è stata di 4,9/1000 gravidanze (Knight, 2020). Su 427 donne, 266 hanno partorito; per 41 (10%) vi è stata la necessità di ricovero in terapia intensiva e 5 (1%) sono decedute (due per cause diverse da COVID-19). Tuttavia, anche qui, gli esiti più gravi si sono verificati in una popolazione di donne con elevata frequenza di fattori di rischio preesistenti all’infezione: obesità (34%), sovrappeso (35%), gemellari (2%), patologie preesistenti fra cui diabete, ipertensione, asma, cardiopatie (34%). Inoltre dobbiamo purtroppo constatare che l’appartenenza a gruppi etnici minoritari rappresenta un fattore sfavorevole, sia nella casistica del Regno Unito sia in quella Italiana. Maggiore è la prevalenza della COVID-19 riportata dal sistema di sorveglianza WHO su oltre 16 000 casi: 10%. Tuttavia in questo report sono compresi sia casi con diagnosi accertata sia casi sospetti. Per quanto riguarda la sintomatologia, la conclusione è che i sintomi sono stati simili, ma meno frequenti rispetto alla popolazione generale. Nel 4% dei casi si è reso necessario il ricovero in terapia intensiva, mentre non viene riportato alcun dato relativo alla mortalità materna (per approfondire: COVID-19 in Pregnancy nel sito dell’Università di Birmingham, Regno Unito).
Per quanto riguarda gli altri esiti della gravidanza, in tutte le casistiche è riportata, rispetto alla popolazione generale, una più elevata frequenza di parti pretermine (< 37 settimane) e molto pretermine (< 34 o 32 settimane), di basso peso alla nascita (< 2500 g), con indici di Apgar bassi e ricoveri in terapia intensiva neonatale, e una elevata frequenza di tagli cesarei8,9,10,11. È peraltro possibile che questo rifletta in parte interventi iatrogeni (parto pretermine e sue conseguenze) e in parte politiche sanitarie locali (ricoveri precauzionali in terapia intensiva neonatale) in una fase in cui ancora non era chiaro quale poteva essere l’effetto di COVID-19 sul feto e sul neonato. Così come è possibile che alcuni esiti avversi, sia materni sia fetali, siano dovuti alle maggiori difficoltà di accesso all’assistenza in questa fase.
Per quanto riguarda la mortalità perinatale, è bassa. Le conclusioni del WHO collaborating center in base ai dati disponibili a fine giugno 2020 (oltre 2500 nati da madri affette o con sospetta infezione) sono che non vi è prova di rischi maggiori di complicanze in neonati di madri affette da COVID-19 (per approfondire: COVID-19 in Pregnancy nel sito dell’Università di Birmingham, Regno Unito). In ogni caso, per quanto a oggi noto, le complicanze neonatali non sono attribuibili a un’infezione da SARS-CoV-2 del neonato contratta in utero o durante il parto, né con l’allattamento; i casi in cui il neonato è risultato positivo al test alla nascita o subito dopo sono stati peraltro asintomatici o paucisintomatici.
La trasmissione verticale del coronavirus sembra un evento raro. In uno studio italiano9 sono risultati positivi al test nelle prime 24 ore dopo il parto 3,4% dei neonati e dopo le 24 ore un ulteriore 2,7%. Analoghi risultati sono riportati dal già citato WHO collaborating center e nella metanalisi di Dubey e coll.11.
In base alle prove accumulate nel tempo, le società scientifiche hanno prodotto raccomandazioni relative all’assistenza alle donne in gravidanza, al parto e nel post-partum da implementare nelle diverse realtà. Esula da questo contesto entrare nel dettaglio di tali raccomandazioni, che sono molto bene riassunte in un recente articolo12. Di base, le indicazioni tendono a sottolineare che la pandemia non dovrebbe modificare le modalità di sorveglianza della gravidanza fisiologica o della gravidanza con fattori di rischio (e una eventuale infezione da SARS-CoV2 rappresenta certamente un fattore di rischio) né le modalità del parto o del post-partum, compreso l’allattamento al seno; si devono peraltro mettere in atto tutte le misure di prevenzione della diffusione del virus e, quindi, definire percorsi chiari intra ed extraospedalieri.
La consuetudine alla partecipazione da parte del compagno o di altri amici o famigliari a diversi momenti del percorso assistenziale (ecografie, parto, allattamento) è stata bruscamente interrotta, del tutto o in parte, così come si sono interrotte le possibilità di momenti comuni in presenza per le donne gravide, come i corsi di accompagnamento alla nascita. Quali siano gli effetti di questi cambiamenti su donna, neonati e rapporti all’interno del nucleo famigliare non è ancora noto, ma certamente sarà interessante studiarli. Per alcuni aspetti la situazione che si è venuta a creare con la pandemia può essere utile a stimolare modalità nuove di assistenza (per esempio telemedicina, incontri via web, corsi di accompagnamento alla nascita a distanza).
È un’ottima notizia che l’European Medicine Agency (EMA) abbia inserito la gravidanza come priorità per la ricerca su COVID-19 e farmaci; è auspicabile che venga promossa la ricerca anche sugli aspetti non strettamente clinici della gravidanza.
ACE2 e pre-eclampsia
La gravidanza comporta, sin dalle prime settimane dopo il concepimento, importanti modifiche strutturali e funzionali dell’organismo materno che sono strettamente correlate allo sviluppo della placenta. La placenta è un organo che non solo contribuisce a trasferire ossigeno e sostanze nutritizie al feto, ma produce ormoni, citochine, chemochine, fattori di crescita, fattori angiogenici che riversa nel sangue materno e che sono indispensabili per i cambiamenti dell’organismo che riguardano tutti gli organi ed apparati.
A carico del sistema cardiocircolatorio, aumenta la portata cardiaca, si riducono le resistenze periferiche, diminuiscono la pressione arteriosa sistolica e diastolica, nonostante l’attivazione del sistema renina-angiotensina- aldosterone; il volume ematico aumenta, con crescita proporzionalmente maggiore del volume plasmatico rispetto a quello della parte corpuscolata del sangue, con conseguente emodiluizione; la distribuzione dei flussi si modifica, con aumento percentualmente maggiore all’utero, dove si sviluppa la placenta, alle mammelle e ai reni. Il profilo coagulatorio cambia in senso trombofilico. La funzionalità renale si modifica, con aumento della filtrazione glomerulare ed aumento di escrezione di glucosio e proteine. Aumenta la capacità inspiratoria e diminuiscono la capacità polmonare totale ed il volume residuo. La funzione immunitaria si modifica, in modo più complesso rispetto al classico paradigma del passaggio da una predominanza di Th1 nel primo trimestre a Th2 nel secondo trimestre, per un ritorno a Th1 in prossimità del parto13.
La gravidanza è fisiologicamente caratterizzata da una risposta infiammatoria sistemica. Tutti gli indici della risposta infiammatoria di fase acuta sono presenti: granulociti, neutrofili e monociti, proteina C reattiva, VES, fibrinogeno14. Stanti queste premesse, ci si aspettava una maggiore suscettibilità delle donne gravide al COVID-19. Invece, come si è visto, la mortalità materna e la grave morbilità è molto bassa. È possibile che questo sia effetto dell’età delle gestanti: nelle fasce di età riproduttiva (20–40 anni) la letalità nella popolazione femminile è compresa fra 0 e 0,2%. Tuttavia, si può ipotizzare anche che abbiano un ruolo i meccanismi protettivi che, come abbiamo detto, sembrano operare nelle donne in generale, ma che sarebbero potenziati in gravidanza: più alti livelli di ormoni e di ACE215.
Nel corso della gravidanza fisiologica, infatti, la produzione di estrogeni è aumentata così come la produzione di ACE2 di origine placentare, che induce l’aumento dei livelli plasmatici di angiotensina 1-7, potente vasoldilatatore che contribuisce alle modificazioni dell’apparato cardiocircolatorio16. Il fatto che ACE2 possa avere un ruolo nel proteggere la donna in generale, e la donna gravida in particolare, è suggerito anche dall’analogia fra le manifestazioni cliniche e laboratoristiche più gravi della COVID-19 ed una malattia gravidanza-correlata, la pre-eclampsia15.
La pre-eclampia (PE) è una grave patologia che colpisce esclusivamente la gravidanza umana. La diagnosi si basa sul riscontro di ipertensione (che compare nella seconda metà della gravidanza in una donna precedentemente normotesa), accompagnata da proteinuria e/o evidenza di danno renale acuto, disfunzione epatica, segni neurologici, emolisi o trombocitopenia, o – sul versante fetale – restrizione di crescita del feto17. La PE è una sindrome che può presentarsi in diverse forme18; la sua eziologia non è completamente chiarita. Relativamente alla patogenesi ci sono prove che si tratta di una risposta infiammatoria eccessiva che contribuisce al danno endoteliale generalizzato che caratterizza la sindrome19,20,21,22,23. Fattori di rischio per lo sviluppo della PE sono l’obesità, alcune malattie pre-esistenti la gravidanza (diabete, ipertensione, nefropatie), la gemellarità, le gravidanze da fecondazione assistita, in particolare in caso di ovodonazione, le infezioni24,25. Attualmente l’unica possibilità definitiva è l’interruzione della gravidanza che, se troppo precoce, comporta rischi di morte o di esiti avversi per il feto19.
È interessante notare da un lato che i livelli di angiotensina 1-7 sono ridotti nelle pazienti pre-eclamptiche26,27 e dall’altro che i sintomi e le alterazioni ematochimiche che si osservano nella PE sono tipici della cosiddetta tempesta citochinica e sono gli stessi riportati nei casi più gravi di COVID-1928,29. Questi dati rafforzerebbero l’ipotesi che ACE2 abbia un ruolo nel “proteggere” le donne da forme gravi di COVID-19: bassi livelli di ACE2, dovuti al legame con il virus, e quindi alla inattivazione dell’enzima, hanno un ruolo nello sviluppo delle forme gravi COVID-19; il mancato fisiologico aumento di ACE2 in gravidanza può avere un ruolo nello sviluppo della PE. Nelle donne, e in particolare nelle donne in gravidanza, “l’eccesso” di ACE2 fa sì che i suoi livelli rimangano sufficienti anche quando il virus ne sottragga una parte. Ovviamente sarebbe interessante ottenere dati che confermino (o smentiscano) questa ipotesi.
Figura 1 Percentuale di casi COVID-19 diagnosticati in Italia per sesso e settimana di diagnosi.
La COVID-19 in età pediatrica
Tutti gli studi scientifici finora mostrano che fino a 18 anni, bambini e ragazzi oltre ad ammalarsi di meno di COVID-19, si infettano di meno e sono meno contagiosi: hanno meno probabilità di trasmettere il virus alle persone con cui entrano in contatto rispetto agli adulti. Sia gli studi nelle scuole sia quelli sulla trasmissione nelle famiglie, mostrano che raramente il contagio parte dai bambini, mentre nel caso dei virus dell’influenza H5N1 i bambini rappresentano il caso indice in oltre il 50% dei contagi.
Una delle prime analisi della letteratura30 sugli aspetti della trasmissione COVID-19 mostra, innanzitutto, che i bambini tendono ad avere una malattia più lieve rispetto agli adulti e spesso nessun sintomo, con diffusione molto limitata di COVID-19 tra bambini e da bambini ad adulti. Un’ampia recensione della letteratura scientifica su 7780 bambini e ragazzi affetti da COVID-19 di 26 diversi Paesi dimostra una prognosi sostanzialmente positiva per i pazienti in età pediatrica, che raramente mostrano sintomi respiratori gravi31.
Un recente studio europeo condotto in 25 paesi, Italia compresa, su 582 individui al di sotto dei 18 anni e con diagnosi di COVID-19 durante il picco della pandemia in aprile, ha stimato un tasso di mortalità legata al SARS-CoV-2 inferiore a 1% in bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età32. Questi risultati confermano gli studi condotti precedentemente31,33. Solo una piccola percentuale di bambini ha sviluppato una forma grave della malattia cha richiesto il ricovero in terapia intensiva, l’esito fatale rimane tuttavia molto raro34, diversamente da quello che accade per l’influenza che colpisce più gravemente i bambini sotto i 5 anni35. Riguardo a un possibile legame tra la sindrome di Kawasaki, una malattia infiammatoria rara36 e il SARS-Cov-2 portato alla ribalta dalla stampa italiana il rapporto redatto dall’Istituto Superiore di Sanità in data 25 maggio fa chiarezza sull’argomento: «Sulla base delle evidenze scientifiche disponibili a oggi non è dimostrato che i pazienti pediatrici che in passato hanno avuto diagnosi di malattia di Kawasaki siano esposti ad un rischio maggiore rispetto agli altri bambini di contrarre SARS-CoV-2, né di presentare una recidiva di malattia di Kawasaki».
I dati epidemiologici nei diversi Paesi del mondo sono, sostanzialmente, convergenti.
Australia
Il Centro nazionale australiano per la ricerca sull’immunizzazione nel Nuovo Galles del Sud ha riportato il caso di 12 bambini infetti e 15 adulti in 15 scuole primarie e superiori e 10 scuole per l’infanzia e ha tracciato 1448 contatti. Tra questi, 633 sono stati testati per la presenza del SARS-CoV-2 tramite tampone naso-faringeo e/o anticorpi specifici e 18 sono risultati positivi. Solo 5 casi di infezione secondaria sono stati riscontrati e nessuno in 9 delle 10 scuole dell’infanzia, confermando il basso tasso di contagio tra i bambini e tra bambini e adulti37.
Francia
Un’indagine condotta nella regione Crépy-en-Valois, a nord-est di Parigi, recentemente pubblicata, ha analizzato l’andamento dell’epidemia su un campione di 1340 persone, di cui 510 bambini di sei diverse scuole elementari (Fontanet A, et al., medRxiv, 2020). Prima che le scuole chiudessero per le vacanze di febbraio e per il successivo lockdown, sono stati riportati solo tre casi di infezione riconducibile al SARS-CoV-2 nei bambini i quali, peraltro, hanno manifestato sintomi lievi della malattia. La bassa percentuale degli infettati tra il personale docente (7,1%) e non docente (3,6%), contrapposta all’alta percentuale degli infetti tra i genitori dei bambini (61,0%) ha portato alla conclusione che i bambini non siano stati il veicolo per la trasmissione del virus. I ricercatori ipotizzano che, al contrario, possano essere stati i genitori adinfettare i figli e non viceversa. Un altro studio condotto tra aprile e maggio a Parigi, la regione più colpita dall’epidemia in Francia, su 605 bambini e ragazzi di età compresa fra gli zero e i 15 anni conferma i risultati dell’indagine preliminare appena descritta: i bambini sembrano essere meno suscettibili alla malattia e sono anche poco contagiosi. I ricercatori hanno combinato i risultati di tamponi e test sierologici con lo scopo di valutare la diffusione del virus tra i più giovani. Si è visto che fratelli e sorelle all’interno di famiglie con almeno un membro affetto risultavano meno positivi al tampone e all’esame sierologico e questo conferma che il contagio dei bambini avvenga attraverso i genitori (Coehn R, et al., medRxiv, 2020).
Italia
Recentemente, lo studio condotto da Andrea Crisanti a Vò Euganeo, che è stato pubblicato su Nature, conferma che i bambini non si ammalano anche in presenza di una forte esposizione: dei 234 bambini sotto i 10 anni presi in considerazione, nessuno è risultato positivo al virus, nemmeno i 13 che hanno vissuto a contatto con positivi in grado di trasmettere l’infezione38.
Germania
La spinta alla riapertura è seguita ai risultati di uno studio preliminare di quattro università tedesche (Heidelberg, Friburgo, Tubinga e Ulm) su 2500 bambini di età compresa fra uno e dieci anni e i loro genitori. Dai test effettuati è emerso che nel periodo preso in esame, tra aprile e maggio, un bambino e un genitore si sono ammalati, mentre 64 sono risultati positivi al test sugli anticorpi, dunque avevano contratto il virus senza accorgersene. Meno di un terzo dei contagiati erano bambini. Nella maggioranza dei casi di genitori contagiati, poi, non si osservava l’infezione nei figli, confermando che i bambini sono meno suscettibili al virus SARS-Cov-2.
Olanda
Alla riapertura delle scuole, avvenuta gradualmente fra l’11 maggio e l’8 giugno, senza misure di distanziamento sociale stringenti, non è conseguita l’insorgenza di focolai e i test condotti sul personale scolastico dal 6 maggio in poi non ha mostrato un aumento dei casi in percentuale positivi al SARS-Cov-2. L’esperienza olandese che riguarda bambini e ragazzi fino ai 18 anni conferma, ancora una volta, l’impatto minimo della riapertura delle scuole sull’evoluzione della pandemia.
Finlandia e Svezia
Un nuovo studio confronta questi due due Paesi simili, che hanno applicato misure diverse per quanto riguarda le scuole durante la pandemia di COVID-19. Lo studio mostra che non è stata trovata alcuna differenza nell’incidenza complessiva dei casi di COVID-19 nella fascia di età 1–19 anni nei due paesi. In questi gruppi d’età, i casi gravi di COVID-19 sono molto rari in entrambi i Paesi e non sono stati segnalati decessi. I confronti che riguardano le professioni mostrano che i bambini non contribuiscono alla trasmissione negli adulti, e i risultati non hanno mostrato alcun aumento di rischio per gli insegnanti. In conclusione, la chiusura o meno delle scuole non ha avuto un impatto diretto misurabile sul numero di casi confermati in bambini in età scolare in Finlandia o Svezia.
Cina continentale e Hong Kong
Una revisione sistematica degli studi sull’efficacia delle chiusure scolastiche e altre pratiche di allontanamento sociale relative alla scuola descrive gli effetti della chiusura delle scuole, rapidamente implementata, e mostrano che questa misura non ha contribuito al controllo dell’epidemia nella CIna continentale e a Hong Kong39.
Israele
Alcune scuole hanno chiuso in seguito ad alcuni contagi e uno studio condotto sui ragazzi e insegnanti ha mostrato una diffusione del SARS-CoV-2 del 13,2% nei giovani e del 16,6% nel personale. Tra le cause della diffusione sembra ci siano un’ondata di caldo estremo con temperature che salgono a 40 °C e oltre e l’uso diffuso dell’aria condizionata. Tuttavia un altro studio israeliano suggerisce che la maggioranza dei contagi avvengono a casa.
Le manifestazioni cliniche in età pediatrica
La COVID-19 si manifesta nei bambini principalmente con febbre, tosse, mal di gola, accompagnati da stanchezza, mialgia, mal di testa, vomito, diarrea e dolori addominali. In alcuni casi, i sintomi principali sono proprio quelli gastrointestinali oppure esclusivamente respiro affannoso e corto40.
Nonostante siano stati riportati casi di malattia severa nei bambini41 , il decorso del’infezione nei bambini è generalmente lieve, se non addirittura asintomatico. Ad esempio, uno studio che ha seguito l’andamento clinico di 49 bambini con infezione accertata da SARS-CoV-2 ha riportato che solo il 50% presentava febbre, mentre negli altri i sintomi erano non specifici38. Anche i parametri ematici sono pressoché normali con lieve innalzamento transitorio della proteina C reattiva41. I bambini, inoltre, recuperano velocemente. A ogni modo, bisogna prestare particolare attenzione a coloro che hanno patologie pre-esistenti. In quel caso, infatti, la malattia può presentarsi nella sua forma più grave.
Complicazioni cliniche nei bambini: al confine tra sindrome multisistemica infiammatoria e sindrome di Kawasaki
Come già accennato, all’inizio della pandemia da SARS-CoV-2 i bambini sembravano essere quasi immuni nei confronti della COVID-19. Col progredire della pandemia si è reso evidente come anche i bambini potessero ammalarsi seppur con sintomatologia più lieve. Tuttavia, in alcuni casi i bambini con infezione da SARS-CoV-2 possono sviluppare una grave forma di malattia infiammatoria sistemica definita dall’acronimo inglese MIS-C (Multisystem Inflammatory Syndrome in Children). I piccoli pazienti affetti da MIS-C si caratterizzano per una vasculite con interessamento cardiaco e un aumento sistemico dei marker di infiammazione. Tali caratteristiche, dato che sono in comune con altre vasculiti sistemiche come la malattia di Kawasaki, hanno fatto pensare d un nesso di casualità tra malattia di Kawasaki e infezione da SARS-CoV-2.
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Cell condotto dall’ospedale Bambino Gesù in collaborazione con il Karolinska Institutet di Stoccolma ha contribuito a chiarire i meccanismi che sottendono lo sviluppo di queste patologie, evidenziandone le differenti caratteristiche immunologiche. I bambini con infezione da SARS-CoV-2, con o senza complicanza MIS-C, sono stati confrontati con soggetti affetti da malattia di Kawasaki arruolati prima dell’emergenza coronavirus e con pazienti sani42. Lo studio ha rilevato come le citochine (mediatori dell’infiammazione) coinvolte nella risposta immunitaria in corso di malattia di Kawasaki e in corso di MIS-C siano sostanzialmente diverse. In particolare, l’interleuchina 17 (IL17) è aumentata nei bambini con malattia di Kawasaki ma non in quelli con COVID-19 e MIS-C. Inoltre, lo studio evidenzia come la presenza di autoanticorpi contro l’endoglina e l’RPBJ possano svolgere un ruolo fondamentale nella patogensi dell’interessamento vascolare e cardiaco nei pazienti affetti da COVID-19 che sviluppano MIS-C. Anche dal punto di vista cellulare sono emersi differenze sostanziali tra le due patologie. I bambini affetti da COVID-19, infatti, hanno una maggiore percentuale di cellule di memoria CD4+ rispetto ai pazienti con malattia di Kawasaki a testimonianza di un loro maggiore ruolo nella patogenesi della malattia.
Lo studio chiarisce i meccanismi immunologici responsabili dello sviluppo dello stato infiammatorio sistemico in corso di infezione da SARS-CoV2 e malattia di Kawasaki e fornisce importanti indicazioni terapeutiche per il trattamento dalle due patologie. Dai risultati della ricerca emerge l’indicazione di trattare con immunoglobuline ad alte dosi per limitare l’effetto degli autoanticorpi, con anakinra (un principio attivo immunosoppressivo che blocca i recettori dell’interleuchina 1) e con cortisone i bambini con MIS-C in una fase precoce, per bloccare l’infiammazione secondaria a danno dei vasi. Al contrario, nei pazienti pediatrici viene sconsigliato l’utilizzo di tocilzumab (anti-IL6) e di farmaci bloccanti TNFα. Per i pazienti con Kawasaki, i dati suggeriscono per la prima volta la potenziale efficacia di un farmaco che blocca l’IL17 (secukinumab) per controllare l’infiammazione alla base di questa malattia
Perché bambini e bambine si ammalano meno?
Sono state fatte diverse ipotesi per spiegare la minore suscettibilità dei bambini all’infezione. Una di queste è basata su una diversa espressione e distribuzione del recettore ACE2 (la porta di ingresso del virus) in dipendenza dall’età44, anche se un recente studio ha riportato che la carica virale nei bambini può essere alta tanto quella degli adulti, nonostante il basso livello di espressione di ACE243. Inoltre, è stato ampiamente stabilito che i bambini sono resistenti all’infezione da altri coronavirus, incluso SARS-CoV45,46, e che possono attivare una risposta immunitaria innata molto più potente degli adulti che li protegge dall’infezione47. Un’altra possibilità è rappresentata dalla maggiore frequenza di infezioni respiratorie nei bambini, che potrebbe fornire protezione crociata contro il SARS-CoV-247,48.
Uno studio computazionale ha descritto un’omologia di 30 amminoacidi tra la proteina Spike di SARS-CoV-2, la proteina di fusione F1 del virus del morbillo e la proteina del rivestimento (E, envelope) della rosolia. Nonostante non ci siano somiglianze nella struttura cristallografica tra le tre proteine, quella regione di 30 amminoacidi funziona come epitopo ed è coinvolta nella produzione di anticorpi, almeno da un punto di vista predittivo. Questi risultati fanno pensare che la vaccinazione contro morbillo e rosolia in età pediatrica potrebbero fornire, anch’esse, una cross-protezione contro la COVID-1949.
Aspetti sociali: i danni della chiusura delle scuole
La chiusura delle scuole e il confinamento domestico hanno rappresentato un grosso sacrificio per le categorie più giovani che hanno subito un cambiamento repentino e prolungato della loro quotidianità. Bambini e ragazzi sono stati costretti a rinunciare alla scuola, luogo insostituibile non solo per il loro bisogno di apprendimento, ma anche di crescita sociale ed emotiva. Questa rinuncia ha generato una sofferenza che è stata comunicata in modi diversi, spesso con segnali di iperattività e irrequietezza, oppure, al contrario, con la comparsa di abulia, stanchezza, disturbi del sonno (Pisano L., et al psyarxiv, 2020). Anche il famoso ‘Center for Disease Control and Prevention’ (CDC, USA) scende in campo con una importante dichiarazione a favore della riapertura delle scuole, perché l’istruzione è uno dei beni più grandi e va difesa e perché i rischi di tenere chiuse le scuole superano di gran lunga i benefici, come messo in evidenza anche in un articolo dell’Economist apparso di recente.
Bambini e ragazzi imparano meno quando le scuole sono chiuse e perdono l’abitudine a studiare. Sono i bambini provenienti da contesti svantaggiati che soffrono il peso maggiore. L’educazione è la strada più sicura per uscire dalla povertà e privare i bambini di questa possibilità significa condannarli a una vita più difficile, più breve e meno soddisfacente. La Banca Mondiale stima che cinque mesi di chiusura delle scuole costeranno ai bambini di oggi minori entrate per tutta la loro vita lavorativa, per un totale di 10 trilioni di dollari, circa il 7% del PIL mondiale corrente.
I pediatri insistono che è urgente trovare strategie per far ripartire la scuola, se si vuole evitare che alla crisi sanitaria ed economica se ne aggiunga una educativa e sociale dalle conseguenze pesanti per tutti i bambini. Le maggiori riviste e associazioni internazionali pediatriche continuano a ribadire che il rischio di compromissione di aspetti cognitivi, emotivi e relazionali conseguenti alla prolungata chiusura delle scuole è molto alto. «I bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime», così apre il report delle Nazioni Unite dedicato all’impatto della COVID-19 sui bambini.
Uno studio pubblicato il Primo maggio su Lancet Public Health50 ha evidenziato la necessità di tenere in considerazione rischi e benefici della chiusura delle scuole, compreso il fatto che senza adeguate misure di sostegno, questa misura aumenta il bisogno di assistenza all’infanzia anche da parte di genitori impegnati a gestire l’emergenza COVID-19 come operatori sanitari, annullando di fatto i benefici che la chiusura delle scuole potrebbe avere nel ridurre il numero di morti. Non si possono per altro ignorare le prove che si stanno accumulando sui danni collaterali provocati nei bambini dalle conseguenze del lockdown e soprattutto della chiusura prolungata di servizi educativi e scuole.
Oltre al ritardo educativo, che per la maggioranza è molto rilevante, si associano manifestazioni di disagio psicologico non sempre reversibili, derivanti dalla prolungata mancanza di apporti educativi e di tempi adeguati di socializzazione. Le maggiori riviste e associazioni internazionali pediatriche continuano a ribadire che il rischio di compromissione di aspetti cognitivi, emotivi e relazionali conseguenti alla prolungata chiusura delle scuole è molto alto. Secondo l’American Academy of Pediatrics il ritorno a scuola è necessario per lo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale dei bambini e dei ragazzi, per attenuare, se non eliminare, le differenze socio-economiche dell’ambiente di provenienza ed evitare l’enorme disparità di accesso alle metodiche di didattica a distanza tra gli alunni, in modo particolare per gli alunni con disabilità.
Numerosi studi hanno dimostrato che il confinamento domestico e la chiusura delle scuole hanno avuto conseguenze negative gravi e di lunga durata sulla salute fisica e psicologica dei bambini. Gli effetti sulla salute fisica sono legati soprattutto ad una alimentazione meno sana, una diminuita attività fisica e all’aumento dell’uso di dispositivi elettronici: televisione, cellulare e video-giochi (Pietrobello A et al., Obesity, Silver Spring, 2020). Gli effetti sul benessere psicologico ed emotivo erano già stati ampiamente documentati durante le epidemie di SARS ed ebola, e sono stati confermati dalle indagini condotte nei mesi scorsi. Il confinamento domestico, infatti, ha causato un aumento del livello di stress che può avere effetti a lungo termine sul benessere di bambini e ragazzi e aumenta il rischio di sviluppo di malattie mentali nell’età adulta.
Uno studio del 2013, per esempio, ha evidenziato un livello di stress-post traumatico quattro volte superiore nei bambini sottoposti a misure di confinamento domestico rispetto a quelli non sottoposti alla quarantena51. Tra i sintomi più diffusi, ci sono l’insorgenza di nuove paure (come la paura di essere contagiati), l’ansia da separazione, segnali di regressione, disturbi del sonno, irritabilità e comportamento oppositivo. Una recente indagine condotta dal Gaslini di Genova rileva problematiche comportamentali e sintomi di regressione nel 65% dei bambini minori 6 anni, e nel 71% di bambini e ragazzi compresi tra i 7 e i 18 anni.
Sempre in Italia, lo studio osservazionale condotto da Pisano, Galimi e Cerniglia (Pisano L., et al psyarxiv, 2020) ha fatto emergere una prevalenza di comportamenti oppositivi (il 53% dei bambini mostra segni di irritabilità e intolleranza alle regole), e anche di comportamenti adattivi (il 49% è apparso capace di adattarsi alle regole del confinamento), ma ammonisce che questi indizi di resilienza possano in realtà nascondere un maggiore disagio psicologico. La chiusura delle scuole, inoltre, causa un ritardo nel conseguimento degli obiettivi scolastici e più in generale dello sviluppo socioemotivo nell’età evolutiva.
Un mese di vita pesa in modo molto differente nell’età dello sviluppo rispetto all’età adulta. Non si tratta solo delle opportunità di apprendimento andate perdute, ma anche del rischio di dimenticare quello che è stato acquisito fino a quel momento con il risultato di un regresso duraturo che difficilmente potrà essere recuperato. In passato, gli studi sulla chiusura estiva e sull’interruzione dei servizi scolastici causata da eventi metereologici hanno dimostrato effetti duraturi nell’apprendimento scolastico: ogni 10 giorni di chiusura straordinaria provocano una diminuzione del 5% del numero di studenti che raggiungono gli obiettivi di fine anno.
Un recente articolo di Guido Neidhöfer, inoltre, mette in luce come la pandemia e le misure restrittive abbiano effetti differenziati sui bambini, colpendo più gravemente quelli provenienti da contesti svantaggiati, e di conseguenza possano inasprire le disuguaglianze sociali nel lungo periodo. L’articolo rileva che la pandemia e le conseguenti misure restrittive possono ingrandire le disuguaglianze economiche e sociali agendo su più livelli. Da una parte, la riduzione del rendimento scolastico associata alla chiusura delle scuole incide sulle future competenze professionali e sui redditi una volta entrati nel mondo del lavoro.
Negli Stati Uniti, il costo della chiusura delle scuole in termini di mancati rendimenti futuri è stato stimato intorno al 12,7% del PIL. Gli studenti provenienti da contesti svantaggiati hanno minori opportunità educative oltre alla scuola e pertanto sono più esposti a questo effetto collaterale. Un secondo veicolo di inasprimento delle disuguaglianze sociali è legato agli effetti del lockdown sul lavoro dei genitori. I lavoratori meno qualificati, e ancora di più quelli del settore informale, sono i più vulnerabili alla riduzione dei salari e alla perdita del lavoro. Di conseguenza, le famiglie in fondo alla distribuzione reddituale affrontano una riduzione più accentuata delle risorse economiche e questo ha un impatto profondo sulle opportunità dei figli.
Efficacia della chiusura delle scuole sul contenimento degli effetti della diffusione del COVID-19
Una revisione sistematica degli studi pubblicata il 6 aprile su The Lancet. Child & Adolescent Health52 include tutti gli studi sull’efficacia delle chiusure scolastiche e altre pratiche di allontanamento sociale della scuola nella Cina continentale e Hong Kong. I 16 studi inclusi, che descrivevano gli effetti della chiusura delle scuole, suggeriscono che questa misura non ha contribuito al controllo dell’epidemia. Secondo i modelli predittivi inclusi nella revisione, la chiusura delle scuole da sola è in grado di impedire il 2–4% dei decessi, molto meno di altri interventi di distanziamento sociale. Uno studio pubblicato invece il primo maggio su Lancet Public Health46 ha evidenziato la necessità di tenere in considerazione rischi e benefici della chiusura delle scuole, compreso il fatto che senza adeguate misure di sostegno, la chiusura aumenta il bisogno di assistenza all’infanzia anche da parte di genitori impegnati a gestire l’emergenza COVID-19 come operatori sanitari, annullando di fatto i benefici che la chiusura delle scuole potrebbe avere nel ridurre il numero di morti.
Suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2 e andamento clinico della COVID-19 in base all’etnia
Sebbene le evidenze siano ancora limitate, i dati epidemiologici attualmente disponibili riportano una distribuzione dell’infezione da SARS-CoV-2 dipendente dall’etnia di appartenenza, con la popolazione afroamericana, ispanica e le minoranze asiatiche particolarmente esposte all’infezione, con decorso clinico più severo della COVID-19 e tasso di mortalità più elevato53.
Le ragioni di questa apparente predisposizione all’infezione e allo sviluppo della malattia sembrerebbero essere soprattutto di ordine socioeconomico54. La difficoltà di accesso alle cure in alcuni Paesi, il sovraffollamentio sia in ambiente familiare sia professionale, la scarsa istruzione e caratteristiche culturali hanno un profondo impatto sull’andamento dell’epidemia in particolari minoranze etniche, come già dimostrato nel corso della epidemia di influenza A/H1N1 del 200955,56.
Un altro elemento importante è la co-morbidità con altre patologie, quali malattie cardiovascolari, diabete, obesità, patologie renali24,57, dislipemia, ipertensione e persino stress psicologico, tutte condizioni associate ad infiammazione cronica58. Anche le differenze nella funzionalità polmonare potrebbero spiegare una maggiore suscettibilità all’infezione, come riportato per altri virus respiratori59,60,61.
Inoltre, è stato, osservato che nei Paesi a medio-alto reddito, dove la popolazione si sottopone alla vaccinazione per la tubercolosi, il tasso di mortalità per la COVID-19 è molto più basso che in Paesi con lo stesso reddito ma senza un piano di vaccinazione contro la tubercolosi (0,78 per milione contro 16,39 per milione). Ciò sembrerebbe dipendere dall’efficacia di questo vaccino nello stimolare una risposta immunitaria innata che è anche la prima linea di difesa contro la COVID-1962. A supporto di questa osservazione, un recente studio di bioinformatica ha dimostrato che tre degli antigeni del Mycobacterium tuberculosis, bersagli del vaccino, posseggono una conformazione molto simile a quella del dominio S1 della proteina Spike di SARS-CoV-2 e pertanto potrebbero stimolare una risposta immunitaria adattativa e fornire protezione crociata63.
Che cosa ci dice la genetica?
Alcuni polimorfismi in alcuni geni importanti per la biologia dell’infezione sono stati chiamati in causa per spiegare la maggior predisposizione alla malattia e la più elevata mortalità di alcune etnie rispetto ad altre. Uno di questi è il polimorfismo I/D (inserzione/delezione nell’introne 16) nel gene per il recettore 1 dell’angiotensina (ACE1; Angiotensin converting Enzyme 1). È stato dimostrato che il genotipo ACE1 II, prevalente nell’ est asiatico, è inversamente correlato sia con il numero di casi di COVID-19 che con la mortalità dovuta alla malattia e potrebbe essere, quindi, usato come marcatore prognostico64.
Allo stesso modo, il polimorfismo pArg514Gly, dove una glicina sostituisce un arginina in posizione 514, all’interfaccia tra superficie del recettore ACE2 e angiotensina, è predisponente a condizioni cardio-polmonari severe ed è presente in modo particolare nella popolazione afro-americana65. Al contrario, i polimorfismi presenti nella poplazione europea p.Arg708Trp, p.Arg710Cys, p.Arg710His, e p.Arg716Cys4, eliminando il sito di taglio per il TMPRSS2 (Transmembrane Protease Serine 2; vedi anche L’infezione alla luce della biologia strutturale) tra l’arginina 697 e 716 di ACE2, che facilita l’ingresso del virus nella cellula, predisporrebbero ad una malattia lieve/moderata. Di contro, quattro varianti del gene TMPRSS2 associano con una maggiore espressione della proteina nei polmoni. Inoltre, queste quattro varianti sono particolarmente rappresentate nella popolazione europea e americana, suggerendo una più alta suscettibilità all’infezione di queste popolazioni66.
Nessuna correlazione accertata è stata, invece, riportata finora tra la presenza di particolari alleli HLA (Human Leukocyte Antigen, complesso degli antigeni leucocitari umani; vedi anche L’esercito e le armi contro SARS-CoV-2) e la suscettibilità all’infezione, anche se una certa relazione tra l’allelle HLA-*B4601 potrebbe essere associata ad infezione più severa67. Curiosamente, questo allele è più presente nella popolazione cinese rispetto ad altre popolazioni asiatiche, dove l’epidemia è stata meno importante68.
Conclusioni
Questa breve panoramica sulle differenze nella suscettibilità all’infezione a seconda di sesso ed età, dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto complessa sia la biologia del SARS-CoV-2 e quanti siano i fattori che possono modificare il decorso della malattia.
Per quanto riguarda le differenze su base etnica, i dati di letturatura, a oggi, imputano a ragioni di tipo socio-conomico un peso maggiore sull’andamento dell’epidemia. I dati biologici sono ancora scarsi e ulteriori studi sono necessari per chiarire le basi genetiche/fisiologiche per tali differenze.
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