Spillover e pandemia di COVID-19: una prospettiva genomica

di Matteo Chiara1,2, Barbara Illi3, Graziano Pesole2,4
1 Dipartimento di Bioscienze, Università degli Studi di Milano
2 Istituto di Biomembrane Bioenergetica e Biotecnologie Molecolari, Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBIOM-CNR)
3 Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBPM-CNR), c/o Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”, Sapienza Università di Roma
4 Dipartimento di Bioscienze, Biotecnologie e Biofarmaceutica, Università degli Studi di Bari A. Moro


Indice dei contenuti

Ultimo aggiornamento: 27/09/2021

“Per i non esperti”

Bibliografia


Introduzione

Per tutte le zoonosi devono essere soddisfatte tre condizioni perché diventino pandemiche. Primo: il virus responsabile deve essere compatibile con gli esseri umani. Secondo: deve esserci contatto tra esseri umani e altri animali; terzo: una volta effettuato il cosiddetto salto di specie, il virus deve essere trasmissibile tra esseri umani. Sfortunatamente, la pandemia di COVID-19 soddisfa tutte e tre queste condizioni. Tuttavia, da quale animale sia derivato il SARS-CoV-2 (di seguito indicato con CoV-2), l’agente virale eziologico della COVID-19, non è ancora completamente chiaro.
Numerosi studi hanno tentato di individuare i prerequisiti necessari e le condizioni ambientali, geografiche ed ecologiche che possono favorire eventi di spillover di patogeni1. Determinare questi fattori è la chiave per prevedere e prevenire possibili pandemie ed epidemie in futuro. Nonostante i numerosi sforzi, è sempre più evidente che la nostra conoscenza dell’ecologia dei possibili nuovi patogeni è alquanto incompleta. In una recente ricerca Woolhouse e colleghi sono riusciti a catalogare e descrivere ben 1399 diversi patogeni umani, tra questi 87, perlopiù virali, sono emersi solo dal 19802. Gli autori dello studio annotano per ogni decennio un numero sempre crescente di possibili eventi di spillover. Questi sono generalmente localizzati regioni del nostro Pianeta con specifiche caratteristiche ambientali, ecologiche e socio-economiche, che vengono definiti hotspot.

Come emerge una pandemia zoonotica

Una pandemia zoonotica tipicamente può insorgere quando un agente patogeno che in precedenza poteva infettare solo certi animali inizia a infettare gli umani.  Si distinguono più fasi:

  1. durante la prima fase (pre-emergenza), a seguito di cambiamenti demografici e/o ambientali, l’agente incontra nuove specie e estende il suo raggio d’azione;
  2. nella seconda fase (emergenza localizzata), in seguito al contatto con animali o prodotti di origine animale si ha trasmissione del patogeno negli esseri umani; in questa fase, essendo l’essere umano un “nuovo ospite” il patogeno solitamente non è in grado di trasmettersi in maniera efficiente da persona a persona;
  3. durante la terza fase (insorgenza di una pandemia), l’agente patogeno muta e si specializza. Ora è in grado di sostenere lunghe catene di trasmissione, anche negli esseri umani. Ha luogo una serie sequenziale di eventi di trasmissione da persona a persona. I viaggi globali e altre attività umane facilitano la trasmissione in nuove regioni geografiche.

Gli hotspot

Gli hotspot sono regioni con un’elevata biodiversità della fauna selvatica e che hanno subito recenti cambiamenti demografici dovuti all’attività umana, per esempio un incontrollato aumento dell’attività agricola e zootecnica1. Un’analisi globale delle malattie infettive umane emergenti suggerisce che queste patologie trovano spesso terreno fertile per la loro diffusione a causa di falle nei sistemi sanitari pubblici e nei sistemi di sorveglianza. Sulle base di queste considerazioni appare evidente che l’azione umana per la prevenzione e il monitoraggio delle malattie infettive emergenti dovrebbe essere maggiormente concentrata nelle regioni del nostro Pianeta ad elevata biodiversità, in cui fenomeni di espansione demografica incontrano infrastrutture sanitarie pubbliche inadeguate e risorse economiche limitate o assenti per il controllo delle zoonosi3.

Secondo recenti studi, l’Asia orientale e sudorientale, l’India e l’Africa equatoriale, sono le regioni più a rischio per il possibile sviluppo di nuove zoonosi1,4. Per quanto le attività di monitoraggio mirate basate sul sequenziamento metagenomico, negli ultimi anni siano state capaci di identificare un numero sempre crescente di nuovi virus o agenti patogeni con possibile potenziale zoonotico, predire quale di queste nuove entità potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica nel presente o nel futuro è tutt’altro che facile. È ampiamente riconosciuto il fatto che molti virus con potenziale zoonotico circolino nei loro serbatoi naturali da molto tempo4. La loro diffusione dagli ospiti naturali agli umani e ad altri animali è in gran parte dovuta alle attività umane, comprese le moderne pratiche agricole e l’urbanizzazione. Pertanto, il modo più efficace per prevenire la zoonosi virale è mantenere le barriere tra i serbatoi naturali e la società umana, tenendo conto del concetto di “salute globale”.

Coronavirus e zoonosi

«Tutto quanto accade una volta potrebbe non accadere mai più. Ma tutto quanto accade due volte accadrà certamente una terza.»
Paulo Coelho, L’Alchimista

I coronavirus sono virus a RNA a singolo filamento. Secondo il Comitato internazionale per la tassonomia dei virus (ICTV), tassonomicamente fanno parte della famiglia coronaviridae nell’ordine nidovirales. La sottofamiglia dei coronavirus è composta da quattro generi:

  • α-coronavirus;
  • β-coronavirus;
  • γ-coronavirus;
  • δ-coronavirus.

Gli α-coronavirus e i β-coronavirus infettano solo i mammiferi. I γ-coronavirus e i δ-coronavirus infettano gli uccelli, ma alcuni di essi possono anche infettare i mammiferi5. Gli α-coronavirus e i β-coronavirus di solito causano malattie respiratorie negli esseri umani e gastroenteriti in altri animali. Oltre ai coronavirus altamente patogeni, quali SARS-CoV-1, CoV-2 e MERS-CoV, che causano una sindrome respiratoria grave negli esseri umani, altri quattro coronavirus (HCoV-NL63, HCoV-229E, HCoV-OC43 e HKU1) possono infettare gli umani, ma nella maggior parte dei casi inducono solo lievi malattie delle vie respiratorie superiori.

Gli α-coronavirus e i β-coronavirus possono provocare malattie acute in alcune specie di animali di interesse zootecnico, come nei casi del virus della gastroenterite trasmissibile suina6, del virus della diarrea enterica suina (PEDV)7 e il coronavirus della sindrome da diarrea acuta suina (SADS-CoV)8.

Sulla base delle nostre conoscenze attuali, si ritiene che tutti i coronavirus in grado di infettare gli umani siano derivati da eventi di zoonosi. SARS-CoV-1, CoV-2 MERS-CoV, HCoV-NL63 e HCoV-229E sembrano aver avuto origine nei pipistrelli; HCoV-OC43 e HKU1 probabilmente provengono da roditori9. Gli animali domestici possono avere ruoli importanti come ospiti intermedi che consentono la trasmissione del virus dagli ospiti naturali originali agli esseri umani. Inoltre, gli stessi animali domestici possono soffrire di malattie causate da coronavirus trasmessi dai pipistrelli; è il caso del PEDV e del SADS-CoV: entrambi i virus sono frutto di un recente spillover dai pipistrelli ai maiali9. Siccome 7 delle 11 specie di α-coronavirus e 4 delle 9 specie di β-coronavirus a oggi note sono state identificate solo nei pipistrelli, si ritiene che i pipistrelli siano il principale serbatoio naturale di α-coronavirus e β-coronavirus5.

Prima del CoV-2, il ventunesimo secolo aveva già conosciuto la diffusione globale di due coronavirus precedentemente sconosciuti.

2002: SARS

Nel novembre 2002, a Foshan in Cina si registrò il primo caso noto di una sindrome respiratoria acuta grave (SARS)10. Nei mesi successivi, nella Cina continentale emersero nuovi casi, tanto che nel febbraio 2003 si contavano già più di 300 casi di SARS. Gli spostamenti di alcune persone infette hanno successivamente diffuso l’epidemia a Hong Kong e da lì in Vietnam, Canada e molti altri Paesi11. Nel marzo 2003, l’OMS ha istituito una rete di laboratori per isolare l’agente eziologico della SARS. Un notevole sforzo globale ha portato all’identificazione del coronavirus SARS (SARS-CoV-1) all’inizio di aprile dello stesso anno. L’epidemia si concluse nel luglio 2003 dopo aver toccato 27 Paesi con un totale di 8096 casi segnalati e 774 decessi. Cinque ulteriori casi di SARS, derivanti da un circoscritto evento di trasmissione zoonotica, si sono verificati tra dicembre 2003 e gennaio 200413. Da allora non sono stati rilevati altri casi di SARS umana.

Le misure di prevenzione e controllo delle infezioni (quali la quarantena e il distanziamento sociale) sono state fondamentali per porre fine alla pandemia di SARS. Tuttavia, negli anni successivi vari studi hanno evidenziato come alcuni virus simili a SARS-CoV, e potenzialmente in grado di infettare le cellule umane, continuassero a circolare nei pipistrelli12.
L’isolamento del virus SARS-CoV in zibetti delle palme, tassi e procioni in un mercato di animali vivi a Shenzhen (wetmarket), in Cina13, ha fornito il primo indizio circa le possibile origini di questo nuovo virus. Tuttavia, analisi successive hanno dimostrato come questi animali costituissero solo ospiti occasionali, in quanto non si è mai stata trovata una prova diretta della circolazione di virus simili alla SARS-CoV tra gli zibetti delle palme in natura o negli allevamenti14. Solo nel 2005, grazie ad un certosino lavoro di ricerca e campionamento ambientale, si giunse all’isolamento coronavirus simili a SARS-CoV nei pipistrelli ferro di cavallo (genere Rhinolophus). Questa scoperta risultò fondamentale per identificare il serbatoio naturale del nuovo coronavirus. Successivamente, molti coronavirus simili a SARS-CoV (SARSr-CoV) sono stati scoperti in pipistrelli di diverse province della Cina e anche di Paesi europei, africani e del sud est asiatico14. Questi dati indicano che i coronavirus simili a SARS-CoV hanno un’ampia diffusione geografica e che potrebbero essere stati presenti nei pipistrelli per molto tempo.

2012: MERS

L’insorgenza nel 2012 della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus (MERS) ha segnato la seconda introduzione di un coronavirus altamente patogeno nella popolazione umana nel ventunesimo secolo. Nel giugno 2012, dieci anni dopo l’epidemia di SARS, un uomo in Arabia Saudita è morto di polmonite acuta e insufficienza renale. Un nuovo coronavirus, il coronavirus della sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS-CoV), è stato isolato dal suo espettorato15. In seguito a questi eventi, un insieme di casi anomali di grave malattia respiratoria, verificatosi nell’aprile 2012 in un ospedale in Giordania, è stato retrospettivamente diagnosticato come MERS16. Il MERS-CoV ha continuato a emergere e a diffondersi nei Paesi al di fuori della penisola arabica a seguito del viaggio di persone infette; spesso, questi casi di MERS importati hanno provocato la trasmissione del virus in ambito ospedaliero. Per esempio, nel maggio 2015, una sola persona di ritorno dal Medio Oriente ha avviato un’epidemia ospedaliera di MERS in Corea del Sud che ha coinvolto 16 ospedali e 186 pazienti. A oggi, i casi di MERS noti nel mondo sono stai poco meno di 1800 in 27 diversi Paesi e hanno provocato 624 decessi. Diversamente dal SARS-CoV, si ritiene che il MERS-CoV abbia scarse possibilità di essere trasmesso direttamente da persona a persona. La maggior parte dei casi di MERS noti è il risultato di eventi zoonotici indipendenti di trasmissione all’essere umano da cammelli. La scarsa trasmissibilità di MERS-CoV tra esseri umani, abbinata all’alto tasso di mortalità della malattia, è sicuramente uno dei fattori che ha contribuito a limitare la diffusione della MERS.

Viste le precedenti conoscenze acquisite su SARS-CoV, la ricerca del serbatoio naturale del coronavirus MERS-CoV si è inizialmente concentrata sui pipistrelli. Le indagini sierologiche eseguite su tamponi raccolti da cammelli dell’Oman e delle Isole Canarie hanno però svelato un’alta prevalenza di anticorpi anti-MERS-CoV in questi animali17, suggerendo uno scenario alternativo. Le analisi retrospettive di tamponi orofaringei raccolti da cammelli in una fattoria in Qatar, collegata a due casi di MERS umana, hanno successivamente condotto all’isolamento del virus da cammelli in Arabia Saudita e Qatar18. Sulla base di questi dati, il modello più verosimile per la trasmissione del virus della MERS dagli animali agli esseri umani ipotizza che originariamente il virus sia passato dai pipistrelli, il serbatoio naturale, ai cammelli, che hanno poi agito come ospite intermedio. Data l’importanza dal punto di vista zootecnico di questi animali in varie e regioni del mondo, la continua vicinanza con cammelli e dromedari infetti potrebbe spiegare i numerosi eventi di trasmissione zoonotica all’uomo di MERS-CoV.

Dai pipistrelli agli esseri umani

I pipistrelli sono il serbatoio naturale di una vasta gamma di coronavirus, inclusi i virus, come abbiamo visto, della sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus (SARS-CoV-1) e quelli del coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale (MERS-CoV). Per quanto riguarda il SARS-CoV-1, il virus ha attraversato la barriera tra specie passando dai pipistrelli agli zibetti delle palme e/o ad altri animali vivi che vengono solitamente venduti nei mercati umidi in Cina; in questi luoghi diverse persone sono state esposte al virus attraverso gli zibetti. L’analisi del genoma suggerisce che ciò sia avvenuto alla fine del 2002. Nel caso della MERS, in primo luogo un lontano antenato del virus che la causa si è trasmesso dai pipistrelli ai cammelli e ai dromedari; le analisi sierologiche suggeriscono che ciò sia accaduto più di 30 anni fa. La continua circolazione di MERS-CoV nei cammelli ha provocato una frequente trasmissione zoonotica di questo virus. Dopo lo spillover, SARS-CoV e MERS-CoV si sono diffusi tra gli esseri umani principalmente attraverso catene di contagio circoscritte alle strutture ospedaliere.

SARS-CoV-2: pipistrello o pangolino?

I primi casi di COVID-19 sono stati inizialmente associati al mercato umido di Huanan nella città di Wuhan, un mercato all’aperto dedito alla vendita di beni deperibili, quali carne fresca, pesce, frutta, ma anche di animali vivi. Dato che il CoV-2 ha indubbiamente un’origine zoonotica, un collegamento con questo tipo di attività non dovrebbe sorprendere. Tuttavia, poiché non tutti i primi casi sono riconducibili al mercato di Huanan è possibile che la catena di eventi che ha portato alla trasmissione agli esseri umani del CoV-2 sia più complicata di quanto inizialmente sospettato.

L’analisi di tutti i campioni ambientali ottenuti al mercato rivela che tutti i virus isolati sono strettamente correlati a queli campionati dai primi pazienti di Wuhan. Anche se questo dato suggerisce ancora una volta che il mercato ha svolto un ruolo importante per la diffusione del virus, non è chiaro se i campioni provenissero da persone che hanno inavvertitamente depositato materiale infettivo piuttosto che da animali o da materiale animale presente in quel luogo. Sfortunatamente, dato che le autorità cinesi non hanno eseguito alcun tipo di campionamento diretto dalle specie animali presenti al mercato, qualsiasi tipo di ulteriore considerazione risulta difficile, o forse addirittura impossibile.
Le prime informazioni sulle origini del CoV-2 sono arrivate dall’analisi del liquido dopo lavaggio broncoalveolare di uno dei sette pazienti con polmonite grave, ricoverati in terapia intensiva nell’ospedale Jin Yin-Tan di Wuhan19. Le ricerche nelle banche dati per identificare le somiglianze tra il genoma virale estratto da quel paziente e i genomi virali noti, hanno indicato che quel virus era molto simile ai coronavirus correlati alla SARS (SARSr-CoV, SARS-related CoV). Analisi ulteriori hanno dimostrato che il virus deriva, probabilmente, da un coronavirus di pipistrello, in particolare dal coronavirus TG13 che infetta il Rinolophus affinis (Bat-CoV-RaTG13).

Il fatto che i virus più strettamente imparentati con CoV-2 provenissero dai pipistrelli non è stato certamente una sorpresa. I pipistrelli sono indubbiamente la specie serbatoio per una vasta gamma di coronavirus14. Il capillare lavoro di monitoraggio svolto negli ultimi anni in Cina ha infatti identificato un numero notevole di coronavirus di pipistrello, tra cui RaTG13. Nonostante ciò, il ruolo esatto svolto dai pipistrelli nell’origine zoonotica di CoV-2 non è chiaro. È curioso infatti notare che i virus pipistrello più simili al CoV-2 sono stati campionati nella provincia dello Yunnan, a oltre 1500 km da Wuhan19. Questo probabilmente significa, che nonostante i grandi sforzi messi in campo, la nostra conoscenza dei coronavirus dei pipistrelli è ancora largamente incompleta. Inoltre, sebbene valori di similarità di sequenza tra RATG13 e CoV-2 (nell’ordine del 95-96%) possano indurre a pensare che i due virus siano strettamente imparentati, in realtà mostrano un livello di diversità che probabilmente corrisponde a più di 20 anni di evoluzione20. È quindi quasi una certezza che un campionamento più accurato potrà identificare altri virus di pipistrello che sono parenti ancora più stretti di CoV-2. Questo significa anche che ricostruire precisamente la serie di eventi che ha reso possibili la trasmissione di CoV-2 agli esseri umani potrebbe richiedere anni di studio e di campionamento.

Sebbene i pipistrelli siano il più grande serbatoio naturale per i coronavirus, il fatto che questi animali occupino una nicchia ecologica ben separata da quella dagli esseri umani rende probabile che altre specie di mammiferi abbiano potuto svolgere il ruolo di ospiti intermedi, nei quali CoV-2 è stata in grado di acquisire le mutazioni necessarie per una trasmissione efficiente da persona a persona. Per individuare con precisione questi possibili ospiti intermedi, è imperativo studiare con grande precisione quali tipi di coronavirus possono circolare negli animali che vivono a stretto contatto alle popolazioni umane. Ciò è evidenziato dalla recente scoperta di virus strettamente imparentati con CoV-2 nei pangolini, piccoli formichieri che sono contrabbandati nella provincia di Guandong e venduti illegalmente nei mercati cinesi. In effetti, l’analisi del metagenoma estratto dai polmoni di due pangolini, morti in una finestra temporale compatibile con l’insorgenza della pandemia di COVID-19, ha rivelato che quei pangolini erano stati infettati da un virus (definito poi Pangolin-CoV) strettamente correlato al CoV-2 e ad altri SARSr-CoV di pipistrello21. I genomi di CoV-2 e Bat-CoV-RaTG13 sono sovrapponibili e praticamente identici a quello del Pangolin-CoV  (v. Figura 2B in Zhang et al., Current Biol, 2020).

Il Pangolin-CoV e il CoV-2 condividono, nella sequenza della proteina spike, cinque amminoacidi chiave per l’ingresso del virus nella cellule ospite. Questo rende il gene spike di CoV-2 molto più simile al gene corrispondente (omologo) del Pangolin-CoV che a quello del Bat-CoV-RaTG13, suggerendo che le mutazioni possano essere insorte nel virus del pangolino e i pangolini siano stati gli ospiti intermedi. Tuttavia, il confronto delle sequenze genomiche sembrerebbe indicare il Pangolin-CoV come l’antenato comune sia del CoV-2 sia del Bat-CoV-RaTG13 e, insieme, questi due virus costituirebbero un nuovo gruppo di coronavirus, denominato gruppo SARS-CoV-2. Nonostante questi risultati preliminari, l’origine del CoV-2 dal pangolino è ancora oggetto di dibattito. Infatti poiché diversamente da altri virus a RNA i coronavirus mostrano tassi di mutazione (relativamente) bassi e portano nel loro genoma segni evidenti di ricombinazione, un processo di rimescolamento del materiale genetico, le analisi filogenetiche per determinare gli esatti rapporti di parentela tra i coronavirus, CoV-2 incluso, sono molto complesse e spesso non conclusive9. Inoltre, mentre la nostra esperienza passata con i coronavirus suggerisce che l’evoluzione negli ospiti intermedi sia necessaria per infettare gli esseri umani, non si può escludere che il virus abbia acquisito alcune delle sue caratteristiche chiave durante un periodo di diffusione “criptica” negli esseri umani, antecedente alla sua prima rilevazione nel dicembre 2019. Non è possibile escludere, infatti, che il virus abbia iniziato a circolare in popolazioni umane molto prima di quanto pensiamo (e forse nemmeno a Wuhan), e che non sia stato rilevato perché infezioni asintomatiche, o con sintomi respiratori lievi, ma persino casi sporadici di polmonite non erano riconoscibili utilizzando i sistemi standard normalmente applicati per la sorveglianza e l’identificazione dei patogeni. Durante questo periodo di trasmissione criptica, il virus potrebbe aver acquisito gradualmente le mutazioni chiave che gli hanno permesso di adattarsi completamente agli esseri umani.

SARS-CoV-2: artificiale o naturale?

L’idea che il CoV-2 potesse essere un virus artificiale, creato in laboratorio, ha fortemente destabilizzato l’opinione pubblica. Un video circolato sui social media, relativo a un servizio giornalistico italiano circa un virus SARS sintetico, ha fatto sorgere, nell’immediato, dei dubbi sulla reale origine di CoV-2 e sulla responsabilità della Cina nel suo diffondersi.
Quel video, all’interno della trasmissione televisiva italiana Leonardo, risale al 2015 e, nello specifico, riporta i risultati di un lavoro scientifico sulla costruzione e caratterizzazione mediante clonaggio di un virus chimera derivato da un coronavirus SARS (SARS-CoV) di topo in cui è stata inserita la proteina spike SHC014 di un coronavirus di pipistrello22.  In particolare, il gene SHC014 (che codifica per la proteina spike) è stato tagliato da un plasmide e cucito all’interno del genoma di un SARS-CoV di topo, tagliato nello stesso modo in modo che l’inserzione di SHC014 fosse corretta. Nel lavoro citato nel video, studi in vitro e in vivo hanno dimostrato, rispettivamente, che gli anticorpi neutralizzanti anti-SARS non sono efficaci nel rallentare la crescita del virus nelle cellule ospite e nel proteggere i topi dall’infezione. Perciò, la pubblicazione di quel vecchio video della trasmissione Leonardo nel marzo 2019 ha destato grande preoccupazione.
Tuttavia, quel lavoro voleva essere semplicemente la dimostrazione di un principio, ossia che l’eventuale insorgenza di nuovi SARS-CoV e relative epidemie avrebbe potuto accadere e avrebbe potuto essere potenzialmente pericolosa per la possibile mancanza di cure e vaccini. Ma il CoV-2 non ha tracce nel suo genoma del genoma di SARS-CoV di topo, al contrario del virus chimera dello studio in questione.
La presenza di quattro piccole sequenze di amminoacidi nella proteina spike di CoV-2, lo strumento che il virus usa per entrare nelle cellule, comuni al virus HIV, ha destato ulteriore preoccupazione. Questa somiglianza è stata sottolineata di recente da Luc Montagnier, uno dei “padri” dell’HIV, rafforzando l’ipotesi che il CoV-2 potesse essere il prodotto di una manipolazione genetica. Da un confronto con altre proteine in banche dati, è emerso che quelle sequenze sono comuni ad almeno altre 300 proteine, non correlate né al CoV-2 né all’HIV. Inoltre, già nel febbraio 2020, il confronto del genoma del CoV-2 con altri genomi ha indicato chiaramente che CoV-2 non ha acquisito quelle sequenze da HIV23. Più recentemente, un articolo sulla rivista Nature Medicine24, ha chiarito molto bene che il CoV-2 è il prodotto di una selezione naturale di virus zoonotici.

Capacità di mutare e varianti di SARS-CoV-2

Con il progredire dell’epidemia di Covid-19, sono stati sequenziati più genomi virali e questo ha permesso di studiare il processo di evoluzione di CoV-2. Data la loro recente ascendenza comune, i primi campioni di Wuhan contenevano relativamente poca diversità genetica. In tempi più recenti, e in diverse località del mondo, sono state identificate differenti possibili varianti del virus. Sebbene l’accumulo di diversità genetica significhi che ora è possibile rilevare distinti tipi di CoV-2, con i soli confronti genomici è difficile determinare se il virus stia accumulando mutazioni epidemiologicamente rilevanti mentre si diffonde nella popolazione mondiale, e qualsiasi tipo di affermazione in questo senso richiede un’attenta verifica sperimentale. La sopravvivenza e il mantenimento della performance virale sono alla base dell’alto tasso di mutazione dei virus a RNA, inclusi i coronavirus. Quando accadono eventi che rallentano la diffusione dei virus e, in particolare, questi rallentano il loro tasso di replicazione, essi perdono la loro fitness e possono comparire mutazioni deleterie per la loro sopravvivenza. Al contrario, quando i virus si propagano ripetutamente e grandemente nella popolazione, aumentano la loro fitness.

Dati gli alti tassi di mutazione che caratterizzano i virus a RNA, è ovvio che appariranno molte mutazioni nel genoma virale e che queste ci aiuteranno a tracciare la diffusione di CoV-2. Tuttavia, appare sempre più chiaro che date le attuali dimensioni della pandemia, il campione di sequenze genomiche disponibili sarà sempre così limitato rispetto al numero totale di casi, che sarà molto difficile, se non impossibile, rilevare le singole catene di trasmissione. Sebbene i coronavirus abbiano probabilmente tassi di mutazione inferiori nel corto periodo rispetto ad altri virus a RNA, i loro tassi di sostituzione dei nucleotidi (cioè la velocità con cui si evolve il genoma) nel lungo periodo non sono troppo diversi da quelli osservati in altri virus a RNA25. Ciò suggerisce che tassi i di mutazione inferiore sono in qualche misura compensati da tassi elevati di replicazione del virus all’interno dell’ospite. Infatti, una popolazione virale più numerosa, può facilmente compensare i ridotti tassi di evoluzione molecolare. Sebbene non vi siano prove che questa capacità di mutare (comune ai virus a RNA) provochi cambiamenti radicali nella trasmissibilità e nella virulenza, in particolar modo su una scala temporale limitata, è ovviamente importante monitorare eventuali cambiamenti nel fenotipo del CoV-2 man mano che si diffonde. Allo stato attuale, pare logico pronosticare che, con ogni probabilità, qualsiasi calo del numero di casi di COVID-19 sarà probabilmente dovuto all’aumento dell’immunità nella popolazione umana e al contesto epidemiologico piuttosto che all’evoluzione del virus.

I virus a RNA possono tollerare un numero limitato di mutazioni26 e solo di alcuni tipi. Inoltre, bisogna considerare che alcune mutazioni sono sinonime, ovvero i cambiamenti nella sequenza di nucleotidi dell’RNA non corrisponde a un cambiamento nella sequenza di amminoacidi che quella sequenza di RNA codifica. Uno studio su 95 genomi di CoV-2 ha rivelato che questi sono simili al 99,9% sia a livello della sequenza genomica sia di quella proteica.
Tuttavia, sono stati scoperti 13 siti particolarmente soggetti a mutazione nel CoV-2. Di particolare rilievo è che alcuni di questi punti caldi per le mutazioni siano all’interno dei geni per le proteine spike e del nucleocapside; questo è particolarmente importante per gli studi su replicazione e trasmissione virale e sull’immunità indotta dal virus27.
Gli studi di mutazione sono stati importanti per identificare le varianti del virus distribuite in specifiche aree geografiche. Per esempio, durante i primi mesi di diffusione della pandemia, l’analisi di 160 genomi di CoV-2 ha permesso di identificare tre tipi principali, definiti A, B e C28 e caratterizzati da particolari varianti amminoacidiche.

  • Il tipo A, suddiviso in due sottogruppi caratterizzati dalla mutazione sinonima T29095C (T = timina; C = citosina; 29095 è la posizione del nucleotide nel genoma), si è propagato soprattutto in Cina e meno in Asia dell’est, Europa, Australia e Stati Uniti.
  • Il tipo B è derivato da A in seguito a due mutazioni, una sinonima (T8782C) e una non sinonima (C28144T), quest’ultima ha determinato la sostituzione dell’amminoacido leucina con la serina. È interessante notare che il tipo B non ha mai lasciato l’est asiatico, se non dopo aver accumulato altre mutazioni.
  • Il tipo C diverge dal tipo B per la mutazione non sinonima G26144T (G = guanina), che cambia una glicina in valina.

È interessante notare che in Italia, secondo queste analisi, ci sarebbero verificati due ingressi del virus: uno da Monaco, derivato dal tipo B e un altro, più precoce, da Singapore, derivato dal tipo C. Queste analisi sono importanti per ricostruire le traiettorie dell’infezione. A ogni modo, questa descritta è una fotografia degli stadi precoci della pandemia.

Studi più recenti, basati su un numero di genomi sempre maggiore, evidenziano come con il diffondersi della pandemia, sia possibile identificare un numero sempre crescente di ceppi/isolati virali che differiscono tra loro a livello genomico29,30. Applicando la disciplina della filogeografia, che consiste nello studio, attraverso il tempo, dell’evoluzione del virus in diverse località del mondo, vari ricercatori sono riusciti ad evidenziare alcune delle caratteristiche fondamentali del processo di evoluzione del CoV-231. Per esempio, diversi studi, confrontando a più riprese i genomi di vari CoV-2 a diversi intervalli di tempo, sono riusciti a misurare la velocità di evoluzione del virus, un parametro fondamentale per capire al meglio le potenzialità del CoV-2 di adattarsi all’ospite umano. La comparazione delle distanze genetiche tra i genomi del CoV-2 ha mostrato un numero differenze molto vicino a quello caratteristico di altri coronavirus e quasi del tutto analogo ai valori osservati per il SARS-CoV-120,29,32. Sulle base del numero di mutazioni osservate e delle stime della velocità di evoluzione del virus (1,84 · 10−3 sostituzioni per sito all’anno), è stato possibile ricavare una stima dell’intervallo di tempo in cui dovrebbe essere avvenuta la prima trasmissione del nuovo virus agli esseri umani. Su questo punto, diversi studi concordano nell’affermare che SARS-CoV-2 circolasse nella popolazione umana almeno dallo scorso settembre, e quindi ben prima dell’epidemia di polmoniti virali a Wuhan.
Considerando tutti i genomi disponibili, a oggi siamo a conoscenza di circa 8000 mutazioni diverse nel genoma di SARS-CoV-2. Il 99,99% di queste mutazioni ha una frequenza allelica inferiore all’1%, il che significa che è osservata in meno dell’1% delle sequenze virali note. Solo 50 mutazioni mostrano una frequenza allelica dell’1% o superiore.

Come detto in precedenza, i confronti dettagliati di tutti i genomi disponibili (82 ­000 al 15 agosto 2020), suggeriscono che in questo momento, usando i dati di variabilità del genoma, è possibile distinguere diversi tipi di genomi di SARS-CoV-230. È molto interessante notare che tutti i tipi di genomi identificati fino a ora mostrano una prevalenza molto diversa in diverse regioni del mondo. Un’osservazione, questa, che è stata argomento di un esteso dibattito durante diverse fasi dell’epidemia. Si è infatti ipotizzato a più riprese, che i differenti tassi di letalità riscontrati in diverse aree del mondo potessero essere associati alla maggiore o minore prevalenza dei diversi tipi virali. Queste osservazioni a oggi non trovano riscontro, e le diverse stime dei tassi di letalità a livello mondiale sono più probabilmente il frutto dell’applicazione di diverse politiche di prevenzione/contenimento della malattia e/o delle diverse modalità di esecuzione dei test diagnostici in diverse regioni del nostro Pianeta33.
È comunque importante rilevare che il tipo virale prevalente in Europa, Sud America e alcune regioni del Nord America, mostra delle mutazioni caratteristiche, che non sono osservate nei virus prevalenti in Cina. Due tra queste mutazioni sono state oggetto di studi più approfonditi per verificarne i possibili effetti funzionali.

Classificazione delle varianti [agg. 27/09/2021]

L’organizzazione mondiale della sanità (WHO, World Health Organization) ha riconosciuto diverse categorie di varianti (Tabella 1):

  • varianti preoccupanti;
  • varianti di interesse;
  • altre varianti.

Rispetto al ceppo originario di SARS-CoV-2 che iniziò la pandemia, sono attualmente quattro le varianti preoccupanti, quattro quelle di interesse e, a dimostrazione della capacità evolutiva del virus, almeno altre 13 le varianti che al momento non destano preoccupazione.

Le varianti preoccupanti (variants of concern), sono così classificate se soddisfano almeno una di queste tre condizioni:

  • aumento della trasmissibilità e quindi cambiamento nell’epidemiologia di COVID-19;
  • aumento della virulenza del ceppo mutato, o cambiamento clinico della malattia;
  • diminuzione dell’efficacia della sanità pubblica, o dei mezzi diagnostici disponibile, o dei vaccini, o delle terapie.

Sono invece definite varianti di interesse quelle che causano:

  • cambiamenti genetici di cui si è dimostrata, o si può prevedere, la capacità di influenzare la trasmissibilità del virus, o la gravità della malattia, o l’evasione dalla risposta immunitaria, o il rimanere occulta alla capacità diagnostica;
  • una significativa trasmissione nella comunità di riferimento, o più cluster COVID-19, in più Paesi con crescente prevalenza relativa ad altri ceppi, o altri effetti epidemiologici che suggeriscono un rischio emergente.
Tabella 1. Varianti di SARS-CoV-2 classificate come preoccupanti o di interesse dal WHO.
DENOMINAZIONE WHO CEPPO VIRALE NAZIONE DI COMPARSA DATA DI COMPARSA
Varianti preccupanti
Alfa B.1.1.7 Regno Unito Settembre 2020
Beta B.1.351
B.1.351.2
B.1.351.3
Sud Africa Maggio 2020
Gamma P.1
P.1.1
P.1.2
Brasile Novembre 2020
Delta B.1.617.2
AY.1
AY.2
AY.3
India Dicembre 2020
Omicron B.1.1.529 Diverse nazioni Novembre 2021
Varianti di interesse
Eta B.1.525 Diverse nazioni Dicembre 2020
Iota B.1.526 Stati Uniti Novembre 2020
Kappa B.1.617.1 India Ottobre 2020
Lambda C.37 Perù Dicembre 2020
Mu B1.621 Colombia Gennaio 2021

[fine agg. 27/09/2021]

 

Mutazioni potenzialmente dannose: la variante in RdRp

Tra le mutazioni che caratterizzano gli isolati di SARS-CoV-2 prevalenti fuori dalla Cina, una merita particolare attenzione perché riguarda l’RNA polimerasi dipendente da RNA (RdRp) del CoV-234.
Le RdRp di SARS-CoV e CoV-2 sono molto simili e questo indica che i coronavirus tendono a mantenere questa proteina conservata nella struttura e nella funzione. La mutazione di RdRp, in particolare al nucleotide 14 408 del genoma virale, è comparsa in Inghilterra il 9 febbraio 2020, contemporaneamente a un aumento drammatico dei casi di COVID-19 in Europa. Più importante è il fatto che, a partire da quella data, secondo una prima analisi, basata su un numero relativamente ridotto (220) di genomi si sia assistito a un possibile aumento della frequenza di mutazione di altre proteine virali, codificate dai genomi con RdRp mutata rispetto a genomi con RdRp non mutata. Questa mutazione non comprometterebbe l’attività catalitica di replicazione dell’RNA di RdRp, ma, piuttosto, sembrerebbe inficiare il legame con altre proteine non strutturali, come nsp14 che, per omologia con nsp14 di SARS-CoV, dovrebbe avere una capacità di “correttore di bozze”, ovvero corregge gli errori di RdRp che questa può commettere durante il processo di replicazione, togliendo i nucleotidi sbagliati e inserendo quelli giusti.
Questa ipotesi potrebbe fornire una possibile spiegazione a livello molecolare dell’aumento della frequenza di mutazione in altri geni (e proteine), come conseguenza di errori nella replicazione. Inoltre, il sito mutato è vicino al sito di interazione di RdRp con farmaci antivirali che ne bloccano l’attività, come il filibuvir e il tegobuvir. Perciò, sarà importante verificare se questa mutazione effettivamente compromette la fedeltà del processo di replicazione e possa far insorgere fenomeni di resistenza ai farmaci. È bene sottolineare, comunque, che in mancanza di accurate validazione sperimentali in laboratorio, queste teorie sono da considerarsi alla stregua di semplici ipotesi, e in quanto tali vanno considerate con cautela. Infatti, secondo studi più recenti, basati su un campionamento di genomi sostanzialmente maggiore (più di 20 000), i tassi di mutazione dei tipi di SARS-CoV-2 attualmente circolanti non sono significativamente diversi. Dei risultati questi, che suggerirebbero, come riportato anche da altre fonti20,29,30, che al momento attuale non ci sono evidenze concrete del fatto che esistano varianti del virus con tassi di evoluzione più veloci. Come sottolineato in precedenza, solo la disponibilità di un numero sempre maggiore di genomi, e la possibilità in futuro di eseguire esperimenti di laboratorio in condizioni controllate, consentirà di appurare in futuro se e quanto la mutazione nella RdRp identificata da Pachetti e colleghi, sia in grado di conferire una maggiore velocità di evoluzione al CoV-2.

Mutazioni potenzialmente dannose: la variante D614G

Una seconda mutazione nel genoma di SARS-CoV-2 ha attirato l’attenzione dei ricercatori di buona parte del mondo. Come la mutazione nel gene RdRp, anche questa è prevalente tra i genomi di SARS-CoV-2 isolati in Europa (ma anche in Sud America, e in alcune regioni del Nord America). Questa mutazione, A23403G, nel genoma del virus, corrisponde a una sostituzione dell’amminoacido 614 della proteina spike (proteina S), un acido aspartico, con un glicina31.

La proteina S, che nei coronavirus protrude sulla superficie del virione conferendo il tipico aspetto di una corona, media la fusione del virus con la membrana cellulare della cellula da infettare, un evento fondamentale per l’ingresso del virus nell’organismo dell’ospite. A causa della sua rilevanza per lo sviluppo di strategie terapeutiche e vaccini, il monitoraggio delle mutazioni nel gene spike è stato uno degli obiettivi principali della comunità scientifica.
Durante queste analisi di monitoraggio vari ricercatori hanno constatato che la variante D614G della proteina spike è diventata la forma più diffusa tra i virus in circolazione. Il monitoraggio dinamico delle frequenze alleliche ha rilevato che l’aumento della frequenza di G614 è avvenuto a più livelli geografici: nazionale, regionale e municipale ed in modo sistematico e ricorrente31. Questo cambiamento si è verificato anche in epidemie locali, in cui la forma originale D614 era prevalente prima dell’introduzione della variante G614, suggerendo che la variante G614 potrebbe avere un vantaggio in termini di fitness.

Le analisi di modellistica molecolare indicano che il residuo 614 si trova sulla superficie della proteina S e che il cambiamento da acido aspartico a glicina potrebbe risultare in una maggiore flessibilità della proteina, cosa che potrebbe conferire al virus una maggiore capacità di infettare le cellule umane. Inoltre, questa sostituzione potrebbe modulare la glicosilazione nel vicino sito N616, una reazione biomolecolare necessaria per il riconoscimento del virus da parte del sistema immunitario.

Due studi indipendenti hanno rilevato che in diversi modelli cellulari, i virioni con la variante G614 raggiungono concertazioni dalle 2 alle 9,3 volte maggiori rispetto ai virioni con la variante D614 della proteina spike31. Inoltre, la variante G614 è associata a cariche virali più elevate nei pazienti di COVID19, un dato che suggerisce una maggiore capacità infettività del virus. Nonostante queste osservazioni, allo stato attuale comunque non si riscontra alcuna correlazione tra la variante G614 della proteina spike, con una maggiore gravità della malattia. Sebbene la rilevanza epidemiologica della variante G614 della proteina Spike a oggi non sia ancora completamente chiara, è evidente come le strategie di monitoraggio delle mutazioni emergenti nel genoma di SARS-CoV-2 siano fondamentali per capire i meccanismi molecolari che governano la patogenesi di COVID-19. Gli approcci basati sul sequenziamento e sul confronto delle sequenze di un numero sempre maggiore di genomi del patogeno sarà un prezioso strumento anche nel futuro per raggiungere una conoscenza sempre più completa di questo nuovo virus.

[agg. 17/11/2020] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante N439K

A marzo 2020, in Scozia, è stata identificata dal progetto COG-UK (vedi anche Contrastare la pandemia con un computer) una nuova variante, la N439K, dove l’amminoacido asparagina (N) è sostituito con l’amminoacido lisina (K). Successivamente, questa variante è stata isolata prima in Romania, poi in Norvegia e ora è diffusa in 12 Paesi europei. Indipendentemente, si è anche propagata negli Stati Uniti e è ora la seconda variante più diffusa. Questa sostituzione consente un legame più forte di Spike ad ACE2, a causa della formazione di un nuovo ponte salino. Tuttavia, proprio come la variante D614G, questa variante non correla con una malattia più severa. Un elemento di allarme potrebbe essere rappresentato dal fatto che la sostituzione N→K sembra ridurre la capacità di riconoscere il virus degli anticorpi diretti contro la variante più comune (la D614G)  e, quindi, aumentare la probabilità di reinfezione. Inoltre, alcuni, ma non tutti gli anticorpi monoclonali, progettati come più che tangibile prospettiva terapeutica per la COVID-19, riconoscerebbero meno bene questa proteina Spike mutata36. Questo problema, tuttavia, potrebbe essere risolto somministrando cocktail di anticorpi monoclonali, che riconoscono porzioni di Spike al di fuori di quella che contiene questa mutazione. [fine agg.]

[agg. 01/02/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante B.1.1.7

La nuova variante battezzata B.1.1.737 ha, rispetto al ceppo originario, 17 mutazioni, 14 delle quali cambiano o tolgono amminoacidi, in quattro diverse proteine del virus. Otto mutazioni sono nella proteina Spike, proprio quella contro cui sono stati sviluppati i vaccini di BioNtech-Pfizer, Moderna e Astra Zeneca. Sulla base di analisi preliminari tre di queste mutazioni potrebbero alterare la capacità infettiva: la prima, N501Y potrebbe facilitare il legame del virus al recettore ACE2 (vedi anche L’infezione alla luce della biologia strutturale). La seconda, la delezione 69-70, potrebbe rendere più complicata la diagnosi molecolare. La terza, P681H, potrebbe alterare un sito con un ruolo cruciale nell’infezione. Sono tre gli elementi di questa variante che destano preoccupazione: che possa divenire più diffusibile; che possa essere più nociva per la salute; che possa risultare insensibile ai vaccini. Al momento, l’unico dato certo è la variante in questione sia più diffusibile37. Apparentemente non è più nociva alla salute.[fine agg.]

[agg. 24/03/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante sudafricana B.1.351

Questa variante è stata identificata tra metà ottobre e novembre 2020, dopo l’inizio di una seconda ondata in tutto il Sud Africa38, ma le analisi filogentiche hanno dimostrato una sua insorgenza già nell’agosto del 2020. Oltre alla nota mutazione D614G, questa variante ha altre 5 mutazioni non sinonime (cioè che cambiano un amminoacido in un altro): D80A, D215G, E484K, N501Y e A701V. Altre tre mutazioni sono emerse a metà novembre 2020 (L18F, R246I e K417N). Tre di queste otto mutazioni cadono nel dominio di legame al recettore di Spike (E484K, N501Y e K417N), tre nel dominio N-terminale (D80A, D215G e L18F) e una nel sito di taglio per la furina (A701V). Sebbene le mutazioni al di fuori del dominio di legame al recettore siano presenti in percentuale variabile tra la popolazione, quelle al suo interno sembrano essersi fissate, in quanto sono state riscontrate con alta frequenza in tutti i campioni . Complessivamente, questa variante mostra un’altissima frequenza di mutazione in tutto il genoma e nel gene che codifica per Spike, con un’alta percentuale di mutazioni che portano a sostituzione di aminoacidi38.

[agg. 24/03/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante brasiliana P1

Questa variante, emersa dal lignaggio B1.1.28, è diventata la predominante in Brasile e contiene 10 mutazioni all’interno del gene che codifica per Spike, oltre alla mutazione D614G. In particolare, esse sono: K417N, E484K, e N501Y nel dominio di legame al recettore, L18F, T20N, P26S, D138Y e R190S nel dominio N-terminale e H655Y vicino al sito di taglio per la furina. Questa variante condivide tre mutazioni con la variante sudafricana nel dominio di legame al recettore (K417N, E484K, e N501Y), ed è nota per sfuggire ad alcuni anticorpi monoclonali e ai sieri di alcune persone vaccinate, soprattutto a causa della mutazione E484K. Anche questa variante è resistente alla neutralizzazione da parte di tre degli anticorpi monoclonali che hanno ricevuto l’autorizzazione per uso di emergenza. Il plasma dei pazienti convalescenti ha mostrato una riduzione di 6,5 volte della capacità neutralizzante, mentre i sieri dei pazienti vaccianti con i vaccini Pfizer e moderna si sono dimostrati ancora efficaci di neutralizzare questa variante, con un decremento piuttosto contenuto della loro attività (2,8 volte per moderna e 2,2 per Pfizer)39.

[agg. 27/09/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante delta

La variante delta (B1.617.2), che ha avuto origine in India nel dicembre 2020, è estremamente più contagiosa delle altre finora note. Basti pensare che in ambiente affollato, senza alcuna misura di mitigazione, il ceppo originario del virus può infettare circa 2,5 persone non vaccinate, mentre, nelle stesse condizioni, la variante delta ne può infettare 4. Questa maggiore capacità infettiva dipende da una serie di mutazioni (nove in tutto) a carico di varie regioni della proteina Spike; alcune di queste aumentano la capacità del virus di fondersi alle cellule. Inoltre, questa variante sembra essere riconosciuta da tre a cinque volte di meno dagli anticorpi neutralizzanti presenti sia nelle persone guarite da COVID-19 sia in quelle vaccinate. Questo la rende quindi una variante preoccupante. [fine agg. 27/09/2021]

[agg. 27/09/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante mu

La variante mu (B1.621), è comparsa nel gennaio 2021 in Colombia, è molto simile alla beta (Sudafricana) ma sembra avere maggiori capacità immunoevasive, come riportato in un recente lavoro ancora al vaglio dei revisori alla stesura di questo testo. Rappresenta lo 0,1% delle infezioni ed è classificata come “di interesse”. [fine agg. 27/09/2021]

[agg. 30/11/2021] Mutazioni potenzialmente dannose: la variante omicron

Identificata in Sudafrica all’inizio di novembre del 2021, omicron presenta diverse mutazioni in differenti porzioni virali. Si ipotizza che queste mutazioni possano essere il risultato di una serie di ricombinazioni che si sono verificate in un soggetto verosimilmente immunocompromesso, in cui il virus ha soggiornato a lungo, e in un contesto di bassissima copertura vaccinale e di co-presenza di fattori favorenti la circolazione del virus in soggetti fragili.

Diverse mutazioni (32) riguardano la proteina Spike. Nove di esse sono già conosciute e identificate in altre VOC: tra queste, la delezione 69-70, che, come nella variante alfa, fa sì che il gene S, uno dei tre bersagli sempre usati per la diagnosi di CoV-2, non sia rilevato mediante RT-PCR nei soggetti positivi, al contrario degli altri due bersagli.

A queste mutazioni se ne aggiungono altre tre mai viste prima nella gene Spike, che potrebbero conferire al virus proprietà biologiche significative: A67V, N440K, E484A; quest’ultima è situata in un punto chiave nel dominio di legame del recettore (dominio RBD).

Altre undici mutazioni (G446S, Q493K, G496S, Y505H, T547K, N764K, D796Y, N856K, Q954H, N969K, L981F) sono invece completamente nuove, e necessitano di esperimenti funzionali per comprenderne l’impatto biologico.

Ulteriori nuove mutazioni (G339D, S371L, S373P, S375F) sembrano avere significati funzionali specifici:

  • una delezione/sostituzione/inserzione nel dominio N-terminale, che potrebbe ulteriormente modificare la conformazione della proteina Spike;
  • le mutazioni S477N e Q498R che, secondo uno studio pubblicato nell’agosto 2021, potrebbero, insieme alla mutazione N501Y, rinforzare il legame col recettore ACE2, aumentare la trasmissibilità del virus insieme, potenzialmente far eludere gli anticorpi, ma sono tutte ipotesi da verificare.

Si rilevano anche molte mutazioni in geni diversi da quelle presenti sulla proteina Spike: in particolare, R203K e G204R nel gene del nucleocapside (N), probabilmente correlabili con una maggiore trasmissibilità della variante.

Infine, questa variante presenta due mutazioni nel sito di taglio della furina: P681H (osservata anche in alfa, mu, gamma) e N679K (comparsa in un’altra variante di interesse, la C.1.2, nell’agosto 2021, originaria del Sudafrica). [fine agg. 30/11/2021]

Conclusioni

Dalla sua comparsa, il CoV-2 è mutato numerose volte, tanto che a oggi siamo in grado di distinguere diverse varianti del virus28,30. Tuttavia, benché durante diverse fasi dell’epidemia dei ricercatori abbiano proposto che alcune delle nuove forme del virus, prevalenti in diverse regioni del mondo, potessero risultare in una forma più aggressiva della malattia, non sono state ancora descritte delle correlazioni tra il genotipo (virale) e il fenotipo (clinico). Anche il tasso di mortalità in specifiche aree geografiche non è stato correlato alla presenza di particolari varianti del virus, mentre come era lecito attendersi, le differenze nei tassi di mortalità in diverse regioni del mondo sembrano correlare in maniera significativa con diversi indicatori anagrafici e socio-economici33.

Il fatto che i virus a RNA possano accumulare nel tempo mutazioni che li rendono più patogenici è già stato dimostrato6. Da questo punto di vista è importante sottolineare che alcune mutazioni del CoV-2, che sono prevalenti in Europa, potrebbero spiegare almeno in parte la maggior incidenza della COVID-19 nel nostro continente31,34, anche se al momento non abbiamo prove definitive e concrete. Perciò, nel futuro sarà importante continuare a monitorare l’insorgenza di nuove mutazioni nel genoma del CoV-2, oltre a eseguire test di laboratorio mirati per capire in maniera più approfondita le possibili implicazioni funzionali delle nuove mutazioni emergenti. D’altro canto, considerazioni approfondite circa l’origine zoonotica di CoV-2, evidenziano come le dinamiche tramite le quali il nuovo virus si è adattato all’organismo umano, siano con tutta probabilità del tutto analoghe a quelle delle epidemie di SARS e MERS. Da questo punto di vista, possiamo spingerci a dire che la pandemia attualmente in corso forse non costituisce un evento del tutto imprevedibile. Date queste premesse, e l’incessante attività antropica di colonizzazione di aree del mondo prima inaccessibili o scarsamente popolate, è altamente probabile che la contaminazione delle aree urbane con quelle selvatiche darà luogo a salti di specie di virus da altri animali agli esseri umani con frequenza sempre maggiore. Per questo motivo le strategie di sorveglianza e prevenzione di possibili eventi zoonotici dovranno essere in futuro sempre più mirate ed efficienti, anche sulla scorta delle conoscenze acquisite durante questa pandemia.

“Per i non esperti”

Allele e frequenza allelica

Un allele è la versione alternativa di un gene. Per esempio, i geni che codificano le proteine del sistema degli antigeni leucocitari umano (HLA), che è costituto da un gruppo di geni che presentano antigeni alle cellule del nostro sistema immunitario, hanno alleli multipli. La frequenza allelica è la frequenza con cui un allele è presente nella popolazione (per esempio, tra microorganismi, in certi gruppi etnici ecc).

Clonaggio

Il clonaggio consiste in una sorta di “taglia e cuci” di un gene all’interno di una molecola di DNA più grande (che può essere una molecola circolare, detta plasmide, o una molecola più grande come quelle virali) grazie a proteine, dette enzimi di restrizione, che tagliano il DNA a ridosso di nucleotidi specifici, e altre, dette ligasi che, letteralmente, cuciono i pezzi.

Metagenomica

La metagenomica è un approccio basato sul sequenziamento del genoma di microrganismi di uno stesso luogo, la cui è analisi effettuata nel proprio habitat naturale, evitando così il problema del prelievo e coltivazione in laboratorio. È particolarmente importante nel caso di microorganismi che dipendono da condizioni di vita specifiche come la temperatura.

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